Vittorio Sermonti s'è consegnato al suo Purgatorio

Giuliano Ferrara

Il literati che poco badava alle regole dell’intimità critica, mi aveva obbligato a mandare a memoria, imparare par coeur, la terzina indimenticabile del Purgatorio di Dante, da lui “firmato” in un supremo commento.

Vittorio Sermonti è diventato un’ombra ieri al mattino. Mi aveva obbligato a mandare a memoria, imparare par coeur, la terzina indimenticabile del Purgatorio di Dante, da lui “firmato” in un supremo commento, in cui l’amore della poesia e dell’ombra vaneggia in un tempo forse eterno. “Ed ei surgendo: Or puoi la quantitate / Comprender de l’amor ch’a te mi scalda, / Quando dismento nostra vanitate, / Trattando l’ombre come cosa salda”. Il poeta latino Stazio rifiuta di farsi trattare come colore dell’aria impalpabile dal maestro Virgilio, sorge, gli abbraccia le gambe in un gesto di reverente affetto, e dismenta la nostra vanitate trattandosi come cosa salda per fargli capire quanto lo ami. La recensione in morte di uno straordinario professore di liceo classico, e tante altre cose ma tante tante, finisce qui. Il resto procede con la registrazione dell’amabilità di una persona, bellezza fisica estrema e rassegnata, e del suo vasto lavoro ozioso, nel senso di gratuito, vigile e devoto, come autore di romanzi e racconti, traduttore e commentatore e critico della poesia grande e piccola, filologo puntuto senza ambizioni o speranze accademiche, aforista, memorialista, uomo di spirito tenace nell’ironia e nell’amore (di Ludovica, certo, e dei due meravigliosi figli suoi e di Samaritana, Ngueo il nomignolo infantile dell’una, Pietro il nome apostolico dell’altro), oltre che delle donne e degli amici e dei maestri che conobbero tutte e tutti un gentleman da sempre membro di diritto del club degli scomparsi.

 

 

Di Sermonti vanno ricordate non solo le grandi opere seconde, se la traslazione vivente di Dante Virgilio e Ovidio non dovessero bastare cerchiamone altre, e la consacrazione della sua casa mentale a una scrittura che fu sempre vizio e sensualità (il vizio di scrivere, come dice il suo penultimo libro), ma certe preziose trovate teatrali, il lavoro con gli attori da lui prediletti, e la passione juventina e non solo per il calcio. Scrisse un pamphlet unico al mondo sui Mondiali vittoriosi d’Italia del 1982 e sul giornalismo sportivo e no, che aveva tradito la Patria, non credendo ai suoi undici eroi, deridendoli nelle prime partite, per ritrovarsi poi stupito, come sempre e anche altrove i giornalisti, a domandarsi dov’è la Vittoria. Dei romanzi c’è da dire che Praga e la malinconia (il tempo fra cane e lupo e i giorni travestiti da giorni, titoli), Praga e la malinconia, due sinonimi, non saranno più raccontate con estro analogo per generazioni, e non è poco. Sermonti fu un literati, nel senso orientale del termine. Era orgogliosamente parte di una classe o casta che ama la vita come risvolto della cultura e l’opposto simmetrico di questo, la cultura come parte ingombrante ed esigente di una vita vissuta come si può.

Educato alla stessa scuola, quella di Roberto Longhi, il suo amico amaro Cesare Garboli era destinato a sventolare come una bandiera superba e scintillante, lui dava un calcio al pallone e giocava ogni partita con l’affanno e la gioia di un uomo, un Mensch, senza badare in modo ossessivo alle regole, nemmeno quelle dell’intimità critica. Il suo stile era elaborato e trovato, veniva così come il dribbling o il cross di un calciatore maturo, campione senza iattanza ma di rigoroso allenamento. Si discute molto del latino, e in un recente pamphlet si dice della versatilità, bellezza e ricorrenza della parola “umbra”, ecco, Sermonti era un monumento alla logica e alla forza della lingua latina. Che cosa ci siamo persi a non essere stati suoi allievi non è in fondo importante se siamo stati ascoltatori radiofonici e diretti del suo leggere Dante, impresa in volgare filologicamente battezzata da Gianfranco Contini e Cesare Segre, fonti feconde di sacro ma sopravanzate in qualche senso dall’umore letterario di un grande misconosciuto talento.

Di più su questi argomenti:
  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.