Classiche stroncature
Sfatare luoghi comuni, classici alla mano: Savinio per rottamare la passione per Celati, Orwell per i putiniani de noantri, Arendt per i nostalgici del partito-ideologico
A volte, davanti a un fenomeno che ci appare con tutta evidenza aberrante o esasperante, si vorrebbe non dover esercitare la fatica della critica. Si spera che basti additarlo, e chiunque capirà. Invece – com’è normale e giusto – non capita così. Ma lo sconforto diminuisce quando ci si accorge che la confutazione migliore è già lì pronta, ante litteram, in qualche vecchio libro, e che strappare al suo contesto una citazione è più utile che annaspare intorno a polemiche nuove. Che sollievo, quando il passato si è già incaricato di stigmatizzare in modo perfetto le mode culturali, i luoghi comuni e le velleità ideologiche del presente! Faccio tre esempi.
IL PROFESSOR CELATI
Le tendenze accademiche si sviluppano con la fatalità di certi eventi geologici. Oggi, nelle nostre università e in quelle anglosassoni, si stenta a trovare un dottorando in italianistica che non venga mobilitato dai suoi insegnanti per celebrare la presunta grandezza eslege di Gianni Celati. Questo accade dopo che nell’ultimo decennio si è ormai diffuso un vero e proprio filone editoriale celatiano, che salvo poche pagine valide (di Ermanno Cavazzoni, più autentico del suo fratello maggiore) produce montagne di scorie ed epigoni di epigoni, comici sì, ma involontariamente. A me sembra che solo una carenza di fiuto insieme stilistico e psicologico possa indurre a vedere in Celati un distratto, stralunato “sapiente”. Dietro Guizzardi e i “parlamenti buffi”, io ho sempre ritrovato il volto tartufesco di un tipico professore del nostro tempo. Le scelte formali celatiane non sono affatto “naturali”: sono al contrario dei partiti presi che trasformano lo stile in stucchevole stilizzazione, sia che si tratti delle “comiche” (poco divertenti e mai necessarie, senza i pregi di Buster Keaton né quelli di Samuel Beckett) sia che si tratti della più interessante rarefazione da narratore delle pianure (basta leggere i “Sillabari” di Goffredo Parise per accorgersi della differenza che passa tra la poesia e il mestiere). Ma è appunto la stilizzazione a rendere Celati così accademicamente appetibile: il suo successo “sociale” è il segno del suo filisteismo inoffensivo. Per questo gli scaffali delle nostre librerie continuano a riempirsi di libri bamboleggianti a base di matti padani, “brache”, “scoregge” e “che” anacolutici: libri che recitano la svagatezza proprio perché non la conoscono (qui il confronto impietoso è con Antonio Delfini), e che sono anzi scritti in genere da autori furbi e avari che vogliono guadagnarsi una voce e un pubblico senza correre rischi.
Ma questi “pargoleggiamenti” erano già stati benissimo descritti da Alberto Savinio in un articolo degli anni Trenta sul più decoroso Sergio Tofano. C’è una pagina esilarante, ora raccolta in “Palchetti romani”, dove Savinio paragona lo stile “futile, onomatopeico e pupazzesco” della compagnia teatrale Tofano al gergo che parlano in famiglia alcuni suoi conoscenti. Eccone il formidabile ritratto: “Benché forniti di nome e cognome, si facevano chiamare, lui Nane, lei Nana e il figlio Nanino. Praticavano quella forma di scemenza comune a tanta gente, che consiste nel deformare puerilmente i nomi e le parole (…) riducevano a forma puerile tutti gli atti della vita, e davanti a quelli più gravi manifestavano un ebetismo sorridente, con che si persuadevano di essere tre tipi molto buffi. ‘Buffo’ era la meta suprema delle loro aspirazioni (…) Dichiaravano ‘barbosa’ qualunque forma di serietà e ‘riposante’ la scemenza. Parlavano (…) un linguaggio convenzionale, composto di monosillabi e onomatopee (…) imitavano gli atteggiamenti ‘buffi’ dei pupazzi (…) Davanti all’immoralismo e ai suoi rischi, si mantenevano prudenti come i visitatori del giardino zoologico davanti al recinto dei leoni; ma l’immoralismo costituendo appunto l’ideale delle loro animule borghesi, si erano foggiato di questo ‘ideale’ un succedaneo innocuo e incruento, equivalente delle sigarette denicotinizzate e del pane per diabetici”.
ADDAVENI’ VLADIMIRO
In questi anni di crisi e di precarietà, torna a diventare sempre più visibile un tipo umano che ricorda molto da vicino la piccola borghesia declassata dalla quale, come insegnano gli storici, attinsero quadri e masse di manovra i movimenti totalitari del Novecento. Spesso questo tipo ha alle spalle ambizioni culturali insoddisfatte, presunte vocazioni che non ha potuto trasformare in mestiere, e coltiva il senso di superiorità – rovescio ovvio del senso d’impotenza – di chi si sente ingiustamente escluso. Al tempo dei primi capelli grigi o delle prime stempiature, ecco allora che il suo antagonismo giovanile sfocia nel complottismo: vede ovunque ingegnosi intrighi di quell’entità che chiama “Occidente”, e a cui assegna tutti gli attributi della più diabolica onnipotenza. Appena incontra un interlocutore dubbioso, lo classifica subito come un cieco servo delle nostre finte democrazie. Il suo animo in fondo in fondo è gentile, ma la frustrazione che gli cresce dentro ne deforma la voce, i gesti, l’espressione. Contro il suo immaginario Moloch, gli serve una bandiera da sventolare senza se e senza ma: un nome e un simbolo davanti a cui la verve polemica al limite della fantascienza, che sputa fuori quando parla di Italia, di Europa o di Stati Uniti, possa finalmente placarsi, e il senso critico riaddormentarsi nel calore dell’entusiasmo.
Adesso che Cuba e palestinesi sono in ribasso mediatico, capita spesso che il suo fangoso stagno di rancori, che i suoi sogni di rivincita e potenza si concentrino intorno alla Russia di Vladimir Putin, come poche stagioni fa intorno a Hugo Chávez. Infatti nel nostro tipo, che oggi partecipa euforico alle presentazioni di “Putinfobia” e condivide i post di Giulietto Chiesa, lo scollamento tra vita vissuta e cultura scolastica tende fatalmente a cancellare la capacità di immedesimazione: se sul lavoro gli toccano un punteggio in graduatoria o lo spostano di sede è pronto a evocare le deportazioni naziste, ma nei paesi lontani che ha scelto come provvisoria patria, approva senza battere ciglio le più brutali violazioni dei diritti civili. Il ritratto più preciso di questa deriva di una parte del ceto intellettuale si trova in un saggio di George Orwell intitolato “Appunti sul nazionalismo” e scritto nel 1945. Nelle sue pagine, che ora si trovano raccolte in “Nel ventre della balena”, Orwell parla di “nazionalismo trasposto”, e osserva che questa “trasposizione” mette un intellettuale “in condizione di essere molto più nazionalistico, volgare, sciocco, pernicioso, disonesto di quanto mai potrebbe essere nei confronti del suo paese natale o unità della quale abbia un’autentica conoscenza”. E così continua: “Quando si leggono le corbellerie presuntuose e servili che si scrivono su Stalin, l’Armata Rossa ecc. da parte di persone sensibili e intelligenti, si comprende che ciò è possibile solo perché è in atto un processo di trasposizione.
Nelle società come la nostra è inconsueto per chiunque sia un intellettuale provare un attaccamento profondo per il proprio paese. L’opinione pubblica – almeno quella parte che lo riconosce tale – non glielo permetterebbe. Poiché la maggior parte delle persone che lo attorniano sono scettiche e apatiche, egli adotta un atteggiamento camaleontico o vile: rinunzierà in quel caso alla forma di nazionalismo più diretta senza peraltro accostarsi a nessuna visione autenticamente internazionalista. Sente ancora il bisogno di una patria ed è naturale cercarne una all’estero. Avendola trovata, sguazzerà senza ritegno in quelle stesse emozioni dalle quali credeva di essersi emancipato. Dio, il re, l’impero, l’Union Jack – gli idoli rimossi riappaiono sotto mutate spoglie e poiché non è semplice riconoscerli possono essere incensati con la coscienza a posto. Il nazionalismo trasposto, come la pratica del capro espiatorio, è un modo di raggiungere la salvezza senza modificare la propria condotta”.
I PARTITI IDEALI
Uno spettro si aggira per l’Europa: quello dei partiti che furono, o meglio di ciò che quei partiti dicevano di essere. Li rimpiangono quasi tutti: sia i retori della destra più inquietante, sia i virtuisti di una sinistra che pretende di avere insieme i privilegi della nobiltà culturale e quelli della ragione politica, finendo per provocare insieme il tradimento dei chierici e l’inefficacia dei governanti. Da una parte come dall’altra, si chiede che i partiti tornino a radicarsi nei vasti progetti ideali, in una articolata visione del mondo che contempli e abbracci ogni ambito della vita. Contro la repubblica liquida di oggi s’invocano insomma le vecchie forze novecentesche e proporzionali, il loro quadro identitario e pluralistico. Eppure, come ricordava spesso Marco Pannella, sono proprio quelle forze e quel quadro politico ad avere prodotto i fascismi e la stagnazione corruttrice che la pragmatica politica anglosassone non ha conosciuto. Simone Weil, che portava le idee alle loro conseguenze estreme, credeva che tutti i partiti fossero da abolire; ma perfino lei riconosceva che i più pericolosi erano quelli nati sul continente dalla dialettica involutiva della rivoluzione francese.
Sul tema, le parole più analitiche e penetranti restano però quelle scritte dopo la catastrofe degli anni Quaranta da Hannah Arendt. Nelle “Origini del totalitarismo” (1951), la Arendt riflette sulla maggiore tenuta della Gran Bretagna bipartitica, in cui governo e opposizione sono una cosa sola con lo stato, rispetto alle nazioni continentali, in cui un multipartitismo spartitorio e irresponsabile gioca con l’idea di uno stato astratto e metafisico, posto al di là delle forze in campo. La maschera ideale dei partiti continentali, osserva nella parte centrale del suo saggio, alza oltre la soglia di guardia il livello di fanatismo e di falsa coscienza: da un lato favorisce i furori ideologici, dall’altro la corruzione e l’immobilismo, o magari la suggestione del colpo di mano. Viceversa, là dove i partiti accettano di presentarsi apertamente come aggregati di interessi, e si devono dimostrare sempre pronti a ad assumersi responsabilità di governo, questa schizofrenia è molto minore.
Ma ascoltiamo le parole della Arendt, da ripetere ancora nel 2016 a tutti coloro che ripropongono la retorica novecentesca dei partiti-Weltanschauung: “Poiché nel bipartitismo un partito non può esistere alla lunga se non ottiene prima o poi abbastanza seguito per assumere le redini del potere, non occorre una giustificazione teorica dell’interesse e non si sviluppano ideologie, col risultato che è completamente assente il peculiare fanatismo della lotta politica continentale, che deriva dal contrasto delle ideologie più che da quello degli interessi”. Il guaio dei partiti continentali, separati per principio dallo stato e dal potere, non consisteva tanto nell'essere attaccati ad angusti interessi particolari, quanto nel vergognarsene escogitando giustificazioni ideologiche che facevano coincidere tali interessi con quelli generali della nazione o dell'umanità”.
In questi tre esempi, il lettore se ne sarà accorto, torna ad affiorare un tratto comune: la falsa coscienza, ossia la sproporzione tra gergo e realtà, tra pretese ideologiche e verità stilistica, morale, materiale. Si pretende di essere clown, e si è invece accademici fino al midollo; ci si fantastica sulle barricate, e si vive come i burocrati “luigini” immortalati da Carlo Levi nel “Cristo si è fermato a Eboli” e nell’“Orologio”; si brandisce la retorica degli ideali, della rappresentanza capillare o delle minoranze, e si fomentano i corporativismi, la fazioni sterili e non inclusive, gli estremismi astratti quanto pretestuosi, insomma la balcanizzazione della vita pubblica. La storia non è maestra, ma sa essere una buona critica militante. Nulla di nuovo sotto il sole.