Ecco perché alla Rai 3 di Daria Bignardi va benissimo l'indice d'ascolto
Veltroni vuole l’indice di qualità, ma la rete “de sinistra” cambia
Alla Rai “sarebbe ora di ripristinare l’indice di qualità”, e invece ormai al servizio pubblico “non conta più se un programma sia bello o brutto. L’esclusivo metro di valutazione è l’Auditel”. E se lo dice lui, se lo dice Walter Ventroni che la storia della Rai l’ha attraversata e il funzionamento della scatola magica lo conosce alla perfezione – “l’innovazione del linguaggio, la diversificazione” – perché mai Daria Bignardi non dovrebbe essere d’accordo? Daria Bignardi che da nove mesi dirige Rai 3 provando a dare alla luce il prodotto nuovo, la lingua salvata televisiva, o almeno funzionale a un servizio pubblico generalista nell’èra della comunicazione digitale? Daria Bignardi potrebbe anche essere d’accordo, del resto la peggiore e più insistita delle critiche che le hanno mosso è di essere abituata a un solo tipo di televisione, quella per intellò nella nicchia dei bassi ascolti. E invece, il direttore di Rai 3 della Rai di Alessandro Campo Dall’Orto potrebbe replicare, in disaccordo: caro Walter, a me il metro dell’audience va benissimo. Perché nel mese di ottobre la sua bistrattata Rai 3 ha superato la sorella Rai 2 negli ascolti giornalieri, e spesso pure nel sacro prime time.
E’ uno di quei numerini di cui è fatta la televisione, e che bisogna sempre manovrare con cautela e attenzione. Certo, il merito non è stato della sua creatura preferita e nelle intenzioni più innovativa, “Politics”, il talk-show diverso dagli altri in prima serata. Partito zoppo in settembre con un 5,5 per cento di share e sprofondato fino al 2,2 per cento, salvato nemmeno dalla puntata con Matteo Renzi. Ed è anche vero che i programmi di traino della rete sono stati quelli che già c’erano, “Che tempo che fa”, “Chi l’ha visto?” (12 per cento) e “Report” della poco renziana Gabanelli; oppure prodotti del marchio Fabio Fazio – una specie di rete dentro la rete – come “Rischiatutto”. Ma è anche vero che, a novembre, è partito bene “#cartabianca” di Bianca Berlinguer, in una collocazione rischiosa ma politicamente inevitabile dopo le note vicende del cambio di direzione al Tg3; e pure bene ha debuttato “Islam Italia” del cavallo di ritorno Gad Lerner, questa sì una scommessa di rete consapevole. La piccola notizia numerica, che vale quel che vale, come un punto in più a metà campionato – e ad esempio Rai 2 in novembre avrà medie d’ascolto modificate al rialzo dal successo del suo “Rocco Schiavone” – indica però una cosa che ha a che fare anche con “l’indice di qualità” invocato da Veltroni ieri sul Corriere della Sera. Ed è questa. Che persino Campo Dall’Orto e Daria Bignardi, spesso accusati (dal mitico “partito interno” e dalla critica) di presunzione, possono imparare. Imparare che le logiche dello spettatore che segue una grande rete del servizio pubblico non sono quelle della nicchia, o dell’innovazione linguistica. L’innovazione, al pubblico generalista, va inoculata in dosi omeopatiche.
Così l’annunciata, e confermata, chiusura di “Politics” a dicembre o entro fine anno, e la sua sostituzione in prima serata con il collaudato “Mi manda Raitre” di Salvo Sottile non è per forza la resa di una linea editoriale ambiziosa, ma un aggiustamento semantico. Che prevede anche questo: che sparirà dalla Rai il gerere “talk politico in prima serata”. Ma del resto, il pubblico della Rai, della Rai renziana, è ancora un pubblico da vecchia politica? Se pure Santoro vota Sì? Quello, al massimo, era un pubblico bersaniano. Poi arriverà Pif con una striscia quotidiana, e arriverà Virginia Raffaele, in aprile. L’audience non fa male a Rai 3, una volta capito di che si tratta.
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