A tu per tu
L'anno due di Michele Santoro
“Grillo è destra, destra pura, insulto e manganello. Come faccio a rimanere nella proprietà del Fatto, con Travaglio? Forse venderò. A sinistra resta solo Renzi, almeno riesce a dare due calci al pallone”
Sa come risultare scandaloso, come colpire l’intervistatore, afferrarne i fili della curiosità per trascinarlo dove vuole lui. Dunque mi dice che i giovani criminali napoletani del suo film, “Robinù”, nei cinema il 6 e 7 dicembre, gli stanno simpatici, li capisce. Ed è un paradosso, certo, una sassata. “Ammazzano, vogliono arricchirsi velocemente. Ma vedo in loro una sorta di ribellione a un destino che li avrebbe consegnati a un lavoro di pochi euro. Questi criminali non si nascondono, sono migliori rispetto a una borghesia incappucciata, che manganella al riparo, dietro l’anonimato di Twitter”. E probabilmente si riferisce anche al doppio e ingioiellato cognome della signora Tommasa Giovannoni Ottaviani, la moglie di Renato Brunetta, la signora della buona società, con villa a Ravello, che distribuiva patenti di mafiosità agli avversari politici del marito, ma nascosta dietro uno pseudonimo, spacciandosi per una giovanissima militante del Movimento cinque stelle, “un cappuccio come quello dei pentiti della criminalità organizzata”, dice lui, in un soffio. Ed è con lo stesso tono di apparente negligenza che, mentre gli si chiede del referendum, del Sì e del No, Michele Santoro lascia andare anche queste parole taglienti, rivolte a un mondo a lui consanguineo: “Non trovo strano che Marco Travaglio abbia schierato il Fatto a favore del No. Trovo tuttavia imbarazzante che tutto il giornale, fin dentro ai necrologi, sia schierato per il No. In ogni sua riga. E’ ridicolo. Trovo imbarazzante possedere delle quote di un giornale senza sfumature, che non ha dubbi, costruito in questo modo. Ne parleremo, credo, dopo il referendum”.
Da quando Antonio Padellaro ha lasciato la direzione, il Fatto è diventato l’organo, l’araldo e il giustiziere pubblico del Movimento cinque stelle? “Se a Marco dici che è diventato l’organo di qualcuno, ti spara”, dice lui, con un ridere malizioso negli occhi. “C’è di sicuro una corrispondenza tra lui e il Movimento. Non so quanto organica. Ma c’è”. Sono ceffoni, magri ceffoni penetranti. Insomma vuoi vendere, vuoi uscire dalla proprietà? “Se questo loro modo di fare il giornale è determinato dalla passione momentanea per il No, va bene. Ma se vogliono continuare così, io a che servo? Che ci sto a fare? Guarda, anche per la salute del giornale che ho contribuito a fondare, mi auguro che vinca il Sì”. E allora Michele Santoro parla di Travaglio, del suo amico Travaglio, quasi come di un’anima ordinata e limitata, che tende a ridurre ogni cosa a una scala monodimensionale, modica e accessibile, come fanno i bambini: bello/brutto, buono/cattivo, “ho sempre considerato Marco molto più contemporaneo di me. Più in sintonia con il mondo del ‘mi piace’ - ‘non mi piace’, che è la grammatica di internet e di Facebook. Io sono fatto in maniera diversa, sono un dinosauro, sempre pieno di dubbi e di elementi chiaroscurali. Una cosa che agli altri può sembrare ambiguità. Ma non lo è”. E allora la domanda è improrogabile, come lo stupore, un po’: tu sei il grande, incontenibile tribuno della televisione italiana! Ma come? Dubbi, chiaroscuri? Tu, tu che della partigianeria, dell’eccesso di partecipazione, emotiva e militante, hai fatto una qualità e un marchio di fabbrica? “Come potrei dire che mi sento irresponsabile per quello che sta succedendo in questo paese?”, risponde, senza incresparsi nemmeno un po’, ma ritrovando tra i sopraccigli quel lieve solco verticale che è testimonianza di un’intensità ostinata. “Grillo l’ho riportato io in tivù, è un fenomeno che ho certamente enfatizzato, e quando era proibito farlo, perché immaginavo una rigenerazione della classe dirigente”.
Ma è un piano inclinato. Si comincia a punzecchiare, a pungere, ma poi dall’ironia si passa al sarcasmo, all’ingiuria, all’assalto. E l’assedio diventa una festa violenta, ogni parola una fucilata a bruciapelo e ogni idea una bomba. “Per me è ormai indubitabile che il Movimento cinque stelle è destra. Destra pura”, sentenzia, con una voce piana, ma serrata. Il benzinaio, i cassonetti stracolmi, le auto e i furgoncini in doppia fila. Sui tetti poggia qualche nuvoletta disordinata, come la strada, tappezzata di foglie morte che nessuno raccoglie da chissà quanto tempo, e che ormai hanno ostruito tutti i tombini, lasciando presagire – visto il cielo volubile e scontroso – un imminente quanto prevedibile allagamento. La circonvallazione Clodia è uno stradone trafficato, ai margini del quartiere Prati, a Roma, una via a doppio senso di marcia la cui architettonica disarmonia è ingentilita, qui e là, da alcune villette dei primi del Novecento, che sembrano osservare attonite gli orridi palazzi degli anni Cinquanta e Sessanta che le strozzano e le accecano, mentre su tutto, dall’alto, dominano le antenne dei ripetitori televisivi. E’ zona Rai, poco più in là c’è anche La7, mentre l’ufficio di Michele Santoro, la sua casa di produzione, la redazione di “Annozero”, sono proprio qui, sullo stradone mal curato da decenni di negligenza amministrativa, al terzo piano di una di queste palazzine di magro e cadaverico cemento. E allora Santoro, uno sguardo indagatore, privo di indulgenza, un viso chiuso come un guscio di mandorla, si guarda intorno, e dice: “Dov’è la palingenesi grillina?”. La visione si condensa e si precisa come in un binocolo messo a fuoco. “La cosa che mi sorprende di più è questa: quando vincono i Cinque stelle non succede nulla. Ormai è un dato di fatto. Guarda Roma”.
“I Cinque stelle, con Virginia Raggi, hanno vinto a Roma, e sfido chiunque a riconoscere un cambiamento”, dice Santoro. “E in più c’è il tentativo da parte loro di trasformare il funzionariato comunale, i dipendenti pubblici, in militanti ed elettori del Movimento. Li blandiscono. E anche qui sento puzza di destra”. Achille Lauro, gli si suggerisce. “Quasi”, risponde lui, mentre descrive un mondo paludoso e furbesco, esaltato a parole, ma composto da gente il cui pensiero resta sempre al livello della peristalsi, degli enzimi, dei succhi gastrici, della pancia. “La cosa più inquietante è che non cambia nulla in questo tran-tran romano, sempre più degradato, e al quale ci siamo abituati. Guarda che alla fine Grillo è potere, è partito, è politica. Solo che finge di non esserlo, nasconde la sua natura, vuole apparire diverso. Ipocrita. Come quando si presenta con i jeans lisi, ma ha la Ferrari in garage e i filippini che rispondono al telefono nella sua villa: ‘Il padrone è uscito’. Con questi non puoi avere un dibattito, tu fai domande e loro rispondono con il manganello e l’insulto. E Grillo fa finta di nulla. Rimane nascosto, incappucciato”. Pure lui. Come la moglie di Brunetta. “Come un troll di Twitter”.
Ed è come se tutto ciò su cui Santoro ha finora planato senza pericolo – Grillo, la denuncia politica, l’avversione per la Casta – gli si profili d’un tratto come un paesaggio irto, tempestoso, inquietante, che forse sarà costretto a ripercorrere palmo a palmo, ma da avversario. “Per me Travaglio, nella mia televisione, è stato un confine, un confine che mi sono dato per essere sicuro che il programma non rinunciasse a una posizione scomoda nei confronti del potere”. Scomoda o aggressiva? “Aggressiva”. Faceste vincere Berlusconi, quando nel 2013 venne in studio, a ridosso delle elezioni politiche, qualcuno disse che aveva guadagnato un milione di voti in una sola sera. “Mi sono portato dietro quel trionfo assoluto in termini di ascolti come se fosse stato un disastro. Bersani disse che aveva perso, o meglio ‘non vinto’, per colpa di Santoro. E’ ridicolo. Bersani ha perso pure nel suo paese, a Bettola. Quelle elezioni la sinistra le perse sul fronte grillino, perché le cose, e questo deve cercare di capirlo anche Renzi, stanno così: se la destra non si ripiglia, e resta ridotta a Salvini e Meloni, Grillo è irrefrenabile”.
Anche Eugenio Scalfari disse che con Berlusconi sembravate Totò e Peppino, compari nella truffa. “Il film era con Nino Taranto, tanto per cominciare. E poi, se fosse stato un incontro di lotta fasullo non avrebbe funzionato drammaticamente. E invece funzionava. E’ stato un crescendo di audience. Su quella trasmissione mi piacerebbe scrivere un libro. Io cominciai con la canzone di Claudio Villa, ‘Granada’, per dire che quella con Berlusconi non doveva essere una corrida, una ghigliottina. L’intenzione era un confronto civile. Berlusconi era così teso che all’inizio non era nemmeno efficace. Gli feci da massaggiatore. Poi divenne pimpante. Tutto è precipitato nel confronto con Travaglio”. Rieccolo. “Prima Berlusconi era stato contenuto, tenuto nel recinto. Con il pezzo di Marco ci fu la svolta. Io feci un errore tecnico, quello che compie ogni sera Gianluca Semprini a ‘Politics’”. Cioè? “Mi misi da parte. Lasciai la scena a Travaglio, convinto che il match si decidesse tra loro due. Con me la faccenda avrebbe preso un’altra forma. Ci sarei andato diversamente, avrei scherzato, avrei alleggerito, sarebbe continuata una schermaglia minore e Berlusconi non avrebbe potuto fare quel lunghissimo e stucchevole monologo che tutti ricordano”.
E forse Santoro ha superato l’età della vita in cui si ha il vizio di prendere tutti i tori per le corna, o forse invece, in fondo, anche in questa sua svolta, che si accompagna al Sì referendario, c’è un calcolo, l’idea che il No di sinistra sia destinato a scomparire dietro quello di Grillo e di Matteo Salvini, dietro il No di destra. Perché Santoro è alla sinistra che si rivolge, è alla sinistra che da trent’anni vende il suo prodotto. “Voglio immaginare una possibile reazione”, ammette, con un furore viscerale e cerebrale, guardingo, “mi sento risucchiato da un richiamo di lotta civile. E’ anche la ragione per la quale, nella mia community, sul sito di ‘Annozero’, ho deciso di aprire il dibattito su questo referendum. Ponendomi domande come questa: ma Grillo ci crede nella Costituzione? Secondo me no. Lui è per il partito unico”.
E Matteo Renzi è di sinistra? “Credo che la sopravvivenza della sinistra dipenda da Renzi. E’ l’unico in campo che riesce a dare qualche calcio al pallone, malgrado io trovi insufficiente il modo in cui affronta l’economia, come un Blair tardivo. E lo trovo lento anche nel saper far svolgere agli strumenti come la Rai la loro funzione di acceleratori dei processi culturali ed economici del paese. Però questo non mi impedisce di vedere quanto siano patetici D’Alema e Bersani quando dicono che se cade Renzi non succede nulla. Se cade Renzi cade la sinistra in questo paese”.
Non è che stai cambiando un po’ mestiere, oltre ad aver modificato certe idee? Adesso hai fatto un film, ti metti dietro la telecamera, al cinema e in televisione. “Non sto cambiando mestiere. Se guardi le cose che ho fatto, riconoscerai sempre un principio di autorialità”. Hai costruito la trasmissione di Giulia Innocenzi, ma forse non hai eredi, come non li ha Minoli, come Vespa, come… “Che c’entra Vespa?”, dice, con un volto chiuso, del quale si è persa la chiave. Vespa è uno dei mostri, in senso buono, della tivù, come te, gli si dice. “Minoli va bene, ma Vespa… Vespa è un conduttore, Minoli invece è anche un grande autore”. Ti sta antipatico Vespa? “Ho stima di Vespa. Ma non ci siamo mai dovuti amare. E non ci siamo mai amati. Trovo che Gad Lerner, semmai, sia più autoriale. Lui riesce a fare trasmissioni, anche particolarmente noiose, insopportabili, ma c’è sempre uno sprazzo di intelligenza. Anche le interviste di Lucia Annunziata mi piacciono, anche più di quelle di Minoli, che sono tambureggianti, pulite, ma non arrivano alla pancia del pubblico, mentre quelle di Lucia hanno un linguaggio ‘sporco’ e zoppicante che a volte diventa spiazzante per l’intervistato”. E queste parole di Santoro ammiccano e danno di gomito, non si capisce se sono complimenti o qualcos’altro.
Ma ci sono giovani bravi in televisione? Tu hai citato tutti seniores della tua generazione. “Ce ne sarebbero di più, di giovani, se Carlo Freccero smettesse di fare politica con Grillo e tornasse a creare la seconda serata in Rai, una cosa che accorci la prima serata rendendola più efficace, e che contemporaneamente permetta anche lo spazio perché nascano una decina di programmi nuovi, il che significa anche giovani. Lì, in seconda serata, alleni autori e conduttori. Ti faccio un esempio: ‘Gazebo’. Devi farli crescere”. Gazebo lo scrive Andrea Salerno. “Che è molto bravo, ma è mio amico e non dico altro”. No, invece devi dire un altro giovane bravo. “Alessandro Cattelan. E’ molto interessante. E’ simpatico, ha ritmo, ed è veloce nel chiosare gli incidenti della diretta. E’ un conduttore in senso classico, però è nuovo. Sono invece meno euforico su X-Factor, che mia figlia mi costringe a vedere. Lo trovo noiosissimo. Si ripete. E quando i giudici diventano più importanti delle canzoni, quando non c’è più equilibrio, non funziona. Noia”. Come la politica? “Vorrei disinteressarmene, ma non ci riesco”, dice. “Non posso”, aggiunge, con una fluida effusione di interna ilarità.