Febbre democratica
Due studiosi hanno trovato il modo di testare la crisi della democrazia. I risultati non sono rincuoranti
Roma. Come si fa a misurare la febbre a una democrazia? In un’epoca in cui i capisaldi dell’ordine liberale sembrano sgretolarsi uno a uno, in cui arrivano picconate dalle elezioni americane come dalle operazioni eversive russe come dalle provocazioni del leader delle Filippine, i partigiani della democrazia iniziano a sentirsi accerchiati e un po’ timorosi. La democrazia ha la febbre? L’ordine liberale che fino a dieci anni fa sembrava avanzare incontrastato in tutto il mondo sta regredendo? In molti si rifugiano dietro alla teoria cosiddetta del consolidamento democratico, secondo la quale una democrazia matura, una volta che ha sviluppato istituzioni solide, una società civile consapevole e un certo livello di benessere, difficilmente ricadrà nell’autoritarismo a meno che non intervengano potenti choc esterni. Certo, l’ondata populista avanza sull’occidente e non solo, ma la nostra democrazia è forte, dicono tanto gli americani quanto gli europei. Yascha Mounk, docente all’Università di Harvard, e Roberto Stefan Foa, scienziato politico all’Università di Melbourne, lavorano da anni sul tema della stabilità e della tenuta delle democrazie, e ritengono che la teoria del consolidamento democratico sia da rivedere. In un paper che sarà pubblicato sul numero di gennaio del Journal of Democracy e che è stato anticipato ieri da Amanda Taub sul New York Times, i due studiosi sostengono che anche le democrazie mature possono degradarsi dall’interno e infine regredire in sistemi autoritari senza bisogno di uno choc esterno.
I due hanno sviluppato un sistema di misurazioni e metriche per capire lo stato di tenuta di una democrazia in base a tre diversi criteri, che sono: il sostegno dei cittadini al sistema democratico, il sostegno dei cittadini ad alternative autoritarie e infine la presenza di partiti e movimenti antisistema nei vari paesi. Questi tre criteri sono campanelli d’allarme dell’indebolimento di una democrazia, e Mounk e Foa li hanno applicati ad alcuni casi storici, notando una perfetta correlazione. Per esempio il Venezuela, che secondo Freedom House negli anni 80 era una democrazia quasi ottimale, che godeva di una piena libertà. In quel periodo, però, i sondaggi davano il sostegno per il sistema democratico in calo e i movimenti antisistema in crescita. Il paese riuscì nel 1992 a respingere il primo tentativo di colpo di stato da parte di Hugo Chávez, ma furono gli stessi venezuelani a eleggere il futuro autocrate latino nel 1998. Anche in Polonia, dove oggi il governo del partito Legge e Giustizia ha preso provvedimenti che l’Unione europea e molti osservatori esterni hanno giudicato antidemocratici, fin dal 2005 il 16 per cento dei cittadini diceva che la democrazia era un “cattivo” sistema di governo, mentre nel 2012 il 22 per cento della popolazione diceva che avrebbe accettato volentieri una dittatura militare: sono i primi due criteri del “test Mounk-Foa”; anche il terzo criterio è rispettato, se si considera la piattaforma violentemente populista che ha propiziato la vittoria di Legge e Giustizia.
In generale, sempre secondo Freedom House, dopo una lunga cavalcata in cui sembrava che l’espansione della democrazia e della libertà fosse incontrastabile e contagiosa, a partire dal 2005 si è iniziato a rilevare un declino costante della libertà in molte parti del mondo. Ma il principio del consolidamento democratico si applica soprattutto alle democrazie mature, e dunque bisogna chiedersi: l’occidente come va nel test Mounk-Foa? Molto male, e non è solo l’elezione di Donald Trump a mostrarlo. Mounk e Foa analizzano alcune democrazie mature, come gli Stati Uniti, il Regno Unito, la Svezia, l’Olanda, e notano che il sostegno alla democrazia da parte della popolazione è sempre più debole. In America, per esempio, se negli anni Trenta i tre quarti della popolazione dicevano che era “essenziale” vivere in una democrazia, oggi è solo un quarto a fare altrettanto.
Allo stesso modo, mentre nel 1995 soltanto un americano su 16 diceva che sarebbe una cosa “buona” o “molto buona” essere governati da un regime militare, oggi lo pensa un americano su sei. Il divario generazionale è particolarmente preoccupante. Come i due studiosi hanno notato in uno studio precedente, il 43 per cento degli americani più anziani ritiene che se un governo democratico si rivelasse incompetente sarebbe illegittimo se i militari prendessero il comando del paese, ma solo il 19 per cento dei millennial è della stessa opinione. In Europa le proporzioni sono simili: contro i militari è il 53 per cento degli europei più anziani ma solo il 36 per cento dei millennial. Anche il terzo criterio del test, quello della presenza di movimenti antisistema, è rispettato: da Trump a Syriza al Front National al Movimento 5 stelle (che nel paper è citato esplicitamente) c’è da sbizzarrirsi.
Insomma, almeno secondo i criteri del test Mounk-Foa, i sistemi politici di gran parte dell’occidente sono da classificare come “democrazie in stato di deconsolidamento”, e quel riflusso del liberalismo che molto percepivano a pelle e temevano scorrendo le news sembra si possa quantificare in termini quanto meno analitici. Non scientifici, perché Mounk e Foa mostrano solo delle correlazioni e non considerano altri fattori importantissimi come l’economia. Ma come scrive Taub, i criteri descritti dai due studiosi sono i sintomi della febbre leggera che arriva prima dello scoppio della malattia più grave.