Giussani e la liturgia: la strada di “coloro che non inventano parole”
“Conversazioni” del 1973 molto attuali per la chiesa di oggi
La liturgia è il libro dei poveri di spirito, di coloro che non inventano parole”. E’ un’affermazione potrebbe essere recepita per vera da quasi tutte le religioni – tutte le religioni hanno un apparato liturgico – ma soltanto nell’ambito del cristianesimo cattolico trova una sua compiuta evidenza. In esso “la liturgia è ciò che il popolo cristiano fedele segue, ripete, risponde. Per questo è l’ambito dell’obbedienza. Non c’è nessuna strada semplice per la conversione che non sia l’obbedienza del cuore”. Perché “Lex Domini irreprehensibilis convertens animas. La parola del Signore è infallibile, è precisa e cambia l’anima”. Oggi la definizione “coloro che non inventano le parole” può risultare un po’ strana. Nel nostro comune senso del spirito siamo abituati – anche per influsso di altre forme religiose allogene, importate, ma ormai diffuse – a inventarci le parole. La liturgia è un po’ un raccontarsela con Dio, oppure sono le parole trattate come fossero magiche, mantra da ripetere e riti da eseguire scrupolosamente, ne va della loro efficacia. Non è un caso che molto del dibattito che agita la chiesa contemporanea ruoti attorno a due poli: il ritorno intransigentista al formulario tradizionale, o uno spontaneismo emozionale che è l’ultimo cascame di una cattiva recezione della riforma liturgica successiva al Concilio.
Quando alcuni giovani raccoglievano e poi davano forma organica a queste lezioni di don Luigi Giussani era fresca l’onda d’urto di quella riforma liturgica. Sono “rapidi appunti” tratti da “conversazioni” svolte in un periodo di otto anni, tra il 1965 e il 1973. C’era allora, oltre alla volontà di imparare da un maestro, anche il problema di “evitare due possibili derive – solo apparentemente opposte – dell’archeologismo e del sociologismo liturgico”, scrive nella presentazione mons. Francesco Braschi, dottore della Biblioteca ambrosiana, che ha curato questa nuova edizione del libro del 1973 (Luigi Giussani, Dalla liturgia vissuta - Una testimonianza, San Paolo, 168 pp., 15 euro). Oggi le derive da evitare sono forse il tradizionalismo e lo psicologismo. Ma il modo con cui Giussani conduce dentro alla liturgia – la preghiera della chiesa in quanto tale – travolge, come allora, le angustie di un dibattito solo teologico, o nei casi peggiori clericale. La caratteristica che rende prezioso questo testo è che Giussani non teneva un corso di dottrina, ma dava una testimonianza “vissuta”, appunto, concentrandosi costantemente sull’aspetto esperienziale della liturgia. Lo fa spiegando – parola per parola quasi – il significato “attuale” ed esistenziale della messa (“la messa dunque è il gesto più importante della nostra esistenza perché è il gesto della morte e resurrezione di Cristo… la è messa è il gesto supremo della comunità”).
E nota, pedagogicamente, che “perché un gesto influisca sulla vita, deve ‘costare’ qualche cosa”: la liturgia non è un salto rassicurante in un altrove spirituale. Giussani parla poi dei tempi liturgici e delle festività (dall’Avvento alla Pentecoste), che sono i passi storici – cioè inseriti nella ordinarietà del contesto umano – attraverso cui la chiesa educa il suo popolo e lo conduce alla conversione. Non c’è nulla di magico o di intimista nel modo in cui il sacerdote ambrosiano suscitatore di Comunione e liberazione (quelli erano anche gli anni della “crisi” tra Gs e Cl) intende la liturgia: “Nel suo senso più vasto la liturgia è l’umanità resa consapevole dell’adorazione a Dio come supremo suo significato, e del lavoro come gloria a Dio”. Intuizione “benedettina” di un cristianesimo che non è fuga in una consolazione mistica, ma una consapevolezza più reale e profonda di ciò che ognuno è: “Tutto il mondo ha bisogno della nostra fede, che la nostra vita cambi per fede”.
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