Donne, opere, ossessioni. Due tè con Luigi Ontani, il maestro che ama Giano
Artista di fama internazionale, la sua opera ha a che fare con il Narciso-Fecondo o Fecondante, sempre fuori di sé.
Mi deprime tanto il seriale e il corrivo eppure, in onore della banalità, inizio proprio così: Suono al campanello della facciata secondaria dello studio di Canova, in via delle Colonnette 27, dove abita il maestro Luigi Ontani, l’amante smodato della divinità più ambigua e remota del paganesimo: Giano. Colui che ha due teste incollate per la nuca affinché possano scrutare meglio il mondo di fuori e quello di dentro.
Mi apre Adil (cioè Giustizia), factotum, “paggio stagionato”, segretario, maggiordomo. Lui ancora non appare, ma già lo vedo nella descrizione che Curzio Malaparte fa nei racconti Sangue a proposito del tipo etrusco sopravvissuto a Tuscania. Vado a memoria, giacché la mia biblioteca è volutamente fatta a pezzi ed esplosa: “Fronte alta, naso sottile e piantato, baricentro alto”. Aggiungo: occhi color miele, dello stesso che usa per addolcire i mirtilli. E mentre non conto i restanti trenta secondi, e prima di rivedere le Erme (statue-opere in ceramica, variamente dotate di fallo) schierate nel pavimento dello studio, ecco di nuovo Malaparte che, in Kaputt, descrive i soldati tedeschi in ritirata, congelati e ficcati nel fango ghiacciato.
Finalmente Luigi (stop al “Maestro”, tra Maestri si è spudorati) tutto vestito di glicine, con la sala del Canova illuminata dal Dantegrillo (una Erma-Robot che muove passettini e ripete a pappagallo 87 lingue registrate dall’artista). “E’ poligrotta”, sussurra l’etrusco con i denti avoriati di un trentenne, “e ho scoperto che la parola ‘arte’ in Oriente non esiste”. Rivedo l’Erma dell’Arma, cioè il carabiniere con il fallico carruba. Sono magnetizzato dal Trumeau Alato che se apri i cassetti profuma di conifere; dall’Ermestetica di Rossini, “Rossiniaria”. E poi sulle alte pareti, che puntano i finestroni, rivedo il Lapsus-Lupus dove, nel tableaux vivant, si maschera da lupa capitolina, ovvio a quattro zampe, tenendo alle mammelle un africanino e un brasilianino. Ma mentre mi aggiro con l’occhio, l’incenso mi avvolge, mi si insinua come veleno adorabile. Eppure non è quello delle mie abazie cistercensi. “No, da chiesa è brutale”, corregge colui che nacque a Vergato, un paesino sull’Appennino tosco-emiliano, dunque terra etrusca, non lontano dalla casetta di Giorgio Morandi. Lesto mi piazza sul tavolo tondo la scatola d’incenso. Leggo: “Masala”. Non ci sono dubbi, come non hanno diritto incertezze sui dettagli.
Con l’occhio perlustro e ripunto ciò che a Luigi Ontani voglio rubare: Gli angeli ribelli. Le ceramiche appese al naylon che vengono giù come le figure “futuriste” (con i diavoli che nel culetto pare abbiano montate turboeliche) del Giudizio Universale del Signorelli. La Tribù-Tabù degli Avi sui travi, detti anche “Capricci”, fa avvitare verso terra (con il mio terrore che si stacchino dalla immobilità e frantumino in eternum) gli artisti che si sono suicidati o che hanno avuto incidenti. L’Ontani si ispirò al tuffatore di Ercolano. Così, dal cielo del Finimondo, rimiro Tancredi che si getta nel Tevere; Boccioni che cade da cavallo; Festa e suo fratello Lo Savio: con le teste immerse nel vino e negli psicofarmaci; la misteriosa Francesca Alinovi; Rosso Fiorentino che si avvelena… Quando mi volto per andare a sorseggiare il tè di Adil domando a Luigi “E l’Eterna?”. Ma non è giunto il momento di parlare della Tullia, la vestale dell’Appennino, la fanciulla antica con viso purissimo che supera ogni ultrapensiero vergineo di Balthus. Colei che tiene le chiavi del Villino Romamor, sulla Rocchetta del Conte Mattei, pioniere dell’elettromeopatia, la vera patria di Ontani.
Il discorso va su un’altra donna. E’ la Venera, la Venera Finocchiaro, la donna siciliana ora sperduta nella campagna romana dalle parti di Boccea o Casalotti, con i capelli da strega e le lenti doppie per occhi, appunto l’artigiana che ha sfornato le ceramiche dei “Capricci”.
Al secondo tè incominciamo a raccontare, con il sottoscritto che allude a domande e l’Ontani che allude o indica risposte come fossimo vicini e appunto Lontani (togliendo l’apostrofo per ricevere il timbro di Giano). “Sì, non scrivo la tua data di nascita né l’anno in cui sei arrivato a Roma. Queste date mi sembrano le vere epigrafi funerarie” dico al Maestro (lo uso come sinonimo per non fare ripetizioni). “Fu il 24 novembre. Il giorno del mio compleanno” sussurra Luigi. “E subito ho conosciuto Franco Gozzano, il nipote di Guido Gozzano il poeta”. Dio Santo!, penso. Il poeta della mia giovinezza, quello che lascia andare la insuperabile, per energia e bellezza, Amalia Guglielminetti. Il poeta che rivolta il suo estetismo in un cappottaccio da dandy morto di sesso pigiato e spento nel languore della malattia. “Appartiene tutto al destino!” dico a Ontani mentre continua a raccontarmi che fu Franco Gozzano ad affittargli lo studio in via Angelo Brunetti. Lo stesso dal quale lo vide sbucare Goffredo Parise facendone un ritratto come la coda di un pavone. Franco Gozzano morto alcolizzato, in compagnia del cantautore livornese Piero Ciampi. “Dovevano orinare a ogni angolo di strada”, mi confessa l’artista che una notte intera trascinai per le vie di Roma derapando con la mia Bmw, tenendo a palla Avalon di Brian Ferry perché avevo mal capito che Ontani avesse fatto la sua prima mostra in Svizzera con quella colonna sonora e invece, in Transformer di Jean Christophe Ammann è – “ io sono come Tarzan” – in compagnia di Lou Reed e David Bowie. C’è da andare pazzi. Con la mente cerco un verso da I colloqui, da La via del rifugio. Ricerco le parole di Ciampi nella leggendaria canzone: Io e te, Maria. Niente. Non pesco niente. Allora mi viene in soccorso Adil con il libro di ceramica su Gozzano (Verso la cuna del mondo – non a caso il viaggio prima della morte in India) con la imitazione della firma del poeta del meleto a opera dell’Ontani. Pazzesco! “Ma insomma quante volte sei stato in India?” mi viene facile chiedergli. Dopo qualche minuto di calcoli, ci fermiamo a “139 volte”: numero per difetto con scelta del 9 perché ci ammalia il dispari.
Mentre solco a passi austeri lo studio, o campo ghiacchiato di Malaparte, intanto che osservo i Grilli Napoleonici: nanetti-galletti deliziosi (mostrati sulla balaustra del Museo Napoleonicò già dimora di Mario Praz), ripenso proprio alla processione che nella via degli antiquari Luigi organizzò. “Mar Dèi Gutt Avi – Il Mare degli Avi – si chiamava”. La processione dei Bamboccianti, con le maschere che raffigurano Livinsky, Turcato, De Pisis, Fellini… Aleramo – che aveva vissuto nello stesso palazzetto di via Margutta, in quella soffitta dove si coricava l’Ontani… Picasso… “Ah, ecco” ribatto senza stupore, ora che penso che i tableaux vivant, e tutta l’opera sua, più che avere come Pontefice Massimo Shiva (la divinità dell’Eros indiana, l’altra faccia di Dioniso) e il Lingam: il fallo del Dio, l’opera del Maestro e con essa il suo corpo hanno a che fare non con il Narciso che si specchia nello stagno, bensì con il Narciso-Fecondo o Fecondante. Infatti il Narciso-Ontani non contempla sé. Tutt’altro. Soffia aria, o profumo fecondo fuori di sé, oltre il suo corpo. Non a caso il controllo delle membra non lievita in fisicità, in sessualità: gli organi si dilatano fino a dissolversi nell’irrealtà, identici alle opere.
“Ma quanti vestiti hai?”. Dopo un breve conciliabolo con Adil e alcuni miei suggerimenti esce fuori il numero “3.657”, calcolo sempre in eccesso con i due dispari finali in onore dell’anno di morte di Malaparte coincidente con la mia nascita. “La prima couturier è stata Tullia”. Eccola Colei. “La donna che ha tremila anni?”, gli domando divertito. “Sì, è sull’Appennino da quel tempo lì”.
Tullia è la sorella di Luigi Ontani, la seconda mamma. Me ne ha parlato come fosse creatura boschiva, ossuta, quasi callosa: ecco perché pazzamente ho creduto che avesse sul serio tremila anni. Ora che la guardo in foto con Luigi (alla maniera di Giano), da un libro curato da Marella Caracciolo, osservo una bellissima in ermellino, immersa nel bosco, con un incarnato perlaceo, insomma una dea etrusca. E quando Ontani mi mette tra le mani Le ragazze di Vergato, un librino scritto a più voci, la vedo ragazza con le trecce, gli occhi strabici: una ninfa di dolcezze disarmanti. Superiore alla divina Anna Maria Ortese. Allora penso che pure lei sia Tullia-Feconda. Mi sta amando attraverso la grazia. Leggo dal suo racconto: “Molte donne facevano le lavandaie o le stiratrici, perché via del Canale era attraversata appunto da un canale che portava acqua al molino Marchi, prelevandola dal torrente Vergatello…”. Dunque esseri etruschi, luoghi etruschi senza tempo. Luigi Ontani sta concependo una fontana monumentale per Vergato: un gigantesco Cupido bronzeo, il Tridente che fa gli Appennini e la vasca di marmo a colori che riceve i fiumi Reno, Vergatello…
Vorrei chiedergli di Schifano, di Boetti e di De Dominicis. So già che uno è il fare, l’altro il concettuale, il terzo: il costume.
Adesso usciamo. Svoltiamo su via Canova, la strada dell’ospedale San Giacomo quasi abbandonata. Meraviglia. La facciata dello studio e imponente e semplice. Noto la testa bronzea di Antonio Canova che si stacca dal muro come Farinata di alzava dall’urna in fiamme. E’ cesarèa. Ma guardandola bene è identica a Marlon Brando nelle vesti di Antonio nel film Giulio Cesare. Nulla è casuale nell’opera di Ontani. Neppure la scelta di questo studio. Canova è lo scultore neoclassico sempre letto come traghettatore verso l’arte del passato. Invece è il classico, dunque un grande moderno. Egli, che del nudo e della sessualità ne ha fatto un emblema, ancor di più giacché scolpiti nella materia dura, il marmo (seppur così lavorato, levigato, incipriato), permette che la stessa materia lieviti in aria, si dissolva in profumo. Antonio Canova è anche Lui un Narciso-Fecondo. Fecondante.
Con Luigi Ontani percorriamo una strada invisibile, irreale. Sarà per questo che mi cala sugli occhi L’Annunciazione di Piero della Francesca. Il fecondare senza sesso per eccellenza.