Ora il mercato dà lezione di “valori”. Un delirio moralizzatore
Da Barilla a Breitbart, senza dimenticare il burro danese e il bikini
Per anni si sono domandati se esistesse un’“etica del mercato”, mentre Norberto Bobbio, Carlo Maria Martini e Cesare Romiti dialogavano su “profitto e morale” e proliferavano le cattedre di “Economia ed etica”. E’ finita che, al consumatore in calo di desiderio, è il mercato adesso a vendergli pure l’etica. La Kellogg, gigante dei cereali, ha annunciato che non farà più pubblicità sul sito virale della galassia trumpiana, Breitbart, il cui ceo Stephen Bannon entrerà alla Casa Bianca come braccio destro di Donald Trump. “Lavoriamo con i nostri partner affinché i nostri annunci non vengano visualizzati sui siti web non allineati con i nostri valori”, ha dichiarato Kris Charles, portavoce della Kellogg. “La decisione di Kellogg di inserire in una lista nera uno dei più grandi media conservatori d’America è una censura economica”, ha risposto Breitbart. Kellogg non è il primo grande marchio a ritirare la pubblicità da Breitbart in nome dei “valori”. L’elenco comprende le assicurazioni Allstate, il provider EarthLink, gli occhiali Warby Parker e la finanziaria SoFi, che rinunciano a un mercato non da poco: Breitbart ha avuto 19,2 milioni di visitatori unici solo negli Stati Uniti nel mese di ottobre.
Ma da tre anni ormai il big business è ideologicamente sulla difensiva. Ha iniziato l’ex amministratore delegato di Mozilla, Brendan Eich, dimissionato dalla sua azienda per un assegno di mille dollari al referendum californiano contro le nozze gay. L’azienda avrebbe perso milioni in commesse se avesse lasciato Eich al suo posto. Il mercato moralizzatore è un delirio, ma un delirio che funziona. La Barilla, rea di essersi schierata a favore del matrimonio fra uomo e donna, è corsa ai ripari chiamando “il gay più famoso d’America”, David Mixner, a rieducare dipendenti e consumatori. Alcuni giorni fa, la Lego, gigante dei mattoncini per bambini, ha annunciato che non farà più pubblicità sul quotidiano britannico Daily Mail, popolarissimo e bifolchissimo. “Abbiamo deciso di interrompere qualsiasi attività promozionale sul giornale”, ha comunicato la Lego, che due anni fa aveva chiuso con la Shell, il cui simbolo era disegnato sulle pompe di benzina della Lego, per protestare contro le trivellazioni nell’Artico (fu Greenpeace a fare pressioni). Lego poi si è piegata al gender e ha introdotto personaggi sessulmente neutri. Il sindaco di Londra, il musulmano Sadiq Khan, ha vietato invece la pubblicità delle ragazze in bikini sui mezzi pubblici, perché fornirebbe “una immagine distorta del corpo femminile”. “Londra è già pronta per la sharia?”, hanno chiesto al sindaco su Twitter. Backstage Capital ha rifiutato un potenziale venture perché aveva legami con Peter Thiel, il fondatore di PaylPal, il gay con subconscie tendenze omofobe rivelate dal suo sostegno a Trump. Anche Tumblr, il social network, ha interrotto i rapporti con Thiel.
C’è stato il caso di Orange, la compagnia telefonica francese uscita dal mercato israeliano dopo che il suo numero uno, Stephane Richard, dal Cairo aveva rassicurato gli investitori arabo-islamici: “Vogliamo essere uno dei partner di fiducia di tutti i paesi arabi”. Quanto tempo staranno Qatar, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita a chiedere alle loro aziende di abbandonare la pubblicità sui giornali che non si adeguano alla doxa islamofila? Ne sa qualcosa il gustosissimo burro danese Lurpak, che perse due milioni di dollari al giorno quando scomparve dagli scaffali dei supermercati della mezzaluna. Finì nel grottesco, con l’industria lattiero-casearia che impartiva lezioni di etica e di libertà di espressione agli incauti vignettisti. Finì con la famosa storia del profitto che dialoga con la morale.