Madama Butterfly, troppo mondana e moderna per la Milano calvinista
L'opera di Puccini è una storia d’amore che dice molte cose sulla credulità femminile e sulla fatuità maschile, ma è soprattutto la storia di una conversione che avviene sull’intersezione di due mondi
Alla prima della Madama Butterfly che questa sera aprirà la stagione della Scala, ci sarà “poca Milano, ma molto mondo”, ha scritto Natalia Aspesi. Niente intellighenzia, cronisti, Valentina Cortese (che “non esce più di casa”): “Via la cultura, avanti la finanza”. Che i “vip del denaro” avessero colonizzato la città era chiaro, ma solo la presa della Scala rende il fatto ufficiale. Dolersene? “Milano è l’inferno”, ebbe a dire Elvira Bonturi, turbolenta compagna di Puccini (indusse al suicidio, con la sua gelosia ossessiva, la domestica di famiglia, Doria), dopo il debutto dell’opera, proprio alla Scala, nel 1904, tra scenette da piazza di Montecitorio quando casca un governo. “Non ascoltarono una nota quei cannibali”, raccontò Puccini in persona. E chi lo sa perché, visto che poco dopo, a Brescia, l’opera fu il successo in cui la lirica continua a provarsi, i cuori a infrangersi, l’occidente a scoprirsi yankee, l’America a temere il Bush dentro di sé. Milano non era pronta? Non tollerava, la capitale calvinista di un paese paganamente cattolico, che il sincretismo si rivelasse predone e si pagasse con il sangue?
Madama Butterfly è una storia d’amore che dice molte cose sulla credulità femminile e sulla fatuità maschile, ma è soprattutto la storia di una conversione che avviene sull’intersezione di due mondi. Un’opera piena di mondo. “Pigri e obesi son gli dei giapponesi! L’americano Iddio son persuasa ben più presto risponde a chi l’implori”, dice Butterfly, la nostra eroina (una geisha diciottenne, bellissima ex ricca, che tre anni prima ha sposato, amandolo abbastanza da ripudiare famiglia, Buddha e leggi giapponesi, l’ufficiale della marina statunitense Pinkerton, un impostore da video di Christina Aguilera) a Suzuki, la sua fedele inserviente, che all’inizio del secondo atto già prega per le sorti sue e della sua padrona, annusando il triste epilogo (l’abbandono di Pinkerton). E infatti, gli dei giapponesi non intervengono, nè muove un dito il Dio americano. Pinkerton sposa Butterfly e riparte per l’America, promettendole che sarebbe rientrato “quando fa la nidiata il pettirosso”. Passano tre nidiate. Quando Sharpless, amico dello stronzetto e console a Nagasaki, dove la storia è ambientata, va dalla giovane sposa, lei gli dà il benvenuto “in una casa americana”, gli offre le sigarette, domanda ogni quanto i pettirossi nidifichino negli Stati Uniti e quando lui cerca di convincerla a cedere al corteggiamento del Principe Yamadori, che vorrebbe prenderla in moglie non riconoscendola più come sposa di un altro (per la legge giapponese dell’epoca, una moglie abbandonata era una moglie divorziata), lei ribatte di essere al sicuro, protetta dalla legge del suo americano, che si è rifatto un’altra vita, con una Kate qualunque che presto le porta a casa, per riscuotere il bambino che Butterfly ha dato alla luce in sua assenza.
Povera Butterfly. Illusa di potersi inchinare come una giapponese e baciare le mani di un uomo come un’americana, di potersi far ripudiare dai bonzi ma chiedere d’essere amata “di un bene piccolino” che dai bonzi ha appreso (“noi siamo gente avvezza alle piccole cose, umili e silenziose”). Convinta, intontita com’è dall’amore, dalla poca vita che ha alle spalle e dalla dedizione (che in quest’opera scopriamo essere virtù culturale), che l’amore possa davvero avvenire “fuori dal mondo”, che riesca a cancellare le barriere, la supremazia, la protervia, il cannibalismo dei liberatori. S’illude, Butterfly. E quando non può più evitare la realtà, dove gli scontri tra culture sono anche teatri di sangue, s’uccide. Mette in mano a suo figlio una bandiera degli Stati Uniti, va dietro un paravento, prende il pugnale di suo padre e si uccide, mentre Pinkerton sa solo dire “datele soccorso, mi struggo dal rimorso” (che è una rima saggia e spietata). Madama Butterfly, Puccini, la dedicò alla regina Elena di Savoia, principessa del Montenegro che per sposare Vittorio Emanuele III fu costretta a rinunciare alla religione ortodossa e passare alla cattolica. Fu amatissima e felice. Perché poi, alla fine, le donne hanno imparato a non farsi uccidere né dall’amore, né dalla dedizione, né dalle conversioni.