Perché, secondo Brandeis, americanismo e sionismo andavano assieme
Un nuovo libro sullo storico giudice della corte suprema
"Grazie, signor Sokolow, lei mi ha restituito al mio popolo”. Con queste parole Louis D. Brandeis (1856-1941) si rivolse a uno degli esponenti di primo piano del sionismo europeo in visita negli Stati Uniti, Nahum Sokolow, in un meeting a Boston. Era il marzo del 1913. Può essere considerata quella la data in cui l’ebreo praghese, di famiglia laica, iniziò a prendere coscienza che il suo profondo americanismo e il suo totale attaccamento ai valori della democrazia americana avrebbero potuto conciliarsi con il sionismo, con l’aspirazione del popolo ebraico a far ritorno nella sua antica patria, Eretz Israel. Questa nuova consapevolezza rappresentò una svolta esistenziale per Brandeis, la cui origine ebraica non aveva costituito fino a quel momento un fattore d’identificazione culturale e morale. Come molti ebrei americani di origine tedesca o in genere mitteleuropea, giunti in America dopo le rivoluzioni del 1848, cui avevano aderito, in gran parte di famiglia borghese e benestante, Brandeis si riconobbe ben presto e completamente nei valori del liberalismo americano, molto vicini a quelli che gli ebrei europei avrebbero condiviso nel 1948.
Il libro di Jeffrey Rosen, “Louis D. Brandeis: American Prophet” (Yale University Press), ci ripropone una figura molto importante della politica e della storia intellettuale degli Stati Uniti nel Ventesimo secolo, ma da molto tempo fuori dagli interessi di studio. Perché, secondo Rosen, Brandeis fu un “profeta americano”? La risposta, come si è accennato, è nel legame – cui Brandeis giunse quando aveva già cinquantasette anni – tra americanismo e sionismo. Quando Brandeis fu nominato da Woodrow Wilson membro della Corte suprema americana, nel gennaio del 1916, il progressismo ricevette un campione di straordinario impegno sociale. In un editoriale di Life del 10 febbraio si leggeva: “Mr. Brandeis è ebreo e fino a oggi non vi è stato mai un ebreo nella Corte Suprema. Forse è tempo che ve ne sia uno”. Una grande dichiarazione di stima verso l’uomo. Brandeis si dichiarava un jeffersoniano (ammirava il Jefferson di Albert J. Nock) e, quando abbracciò il sionismo – scrive Rosen – “egli scoprì nella Palestina l’avveramento dell’ideale jeffersoniano di uno sviluppo economico e sociale fondato sulle piccole comunità agricole”. Per questo motivo, negli ultimi anni della sua vita, pur apprezzando il welfare del New Deal, non poté non criticare gli aspetti maggiormente centralizzatori della politica di Roosevelt.
Quando Brandeis scoprì il sionismo, il suo impegno fu spasmodico. Egli interpretò la “New Freedom” di Woodrow Wilson anche in funzione della libertà del suo popolo, del popolo da cui proveniva. Fu per lui una scoperta entusiasmante, totalizzante. A quest’aspetto della vita di Brandeis Rosen dedica pagine intense, di grande interesse. Di fronte all’Anti-Defamation League nel 1920, Brandeis disse con grande slancio: “Non vi può essere il più piccolo spazio per l’antisemitismo tra di noi. E’ una pianta velenosa. E’ cosa ovvia che debba essere sradicata. Non può avere posto nella libera America”. Altri tempi. Purtroppo.
Brandeis contestò senza indugi la posizione di coloro che accusavano i sionisti americani di doppia lealtà. Per Brandeis, “sostenere la nascita di una patria ebraica da parte degli ebrei americani – scrive Rosen – avrebbe significato creare americani migliori ed ebrei migliori allo stesso tempo”. Anzi, per citare Brandeis, “la lealtà all’America richiede che ogni ebreo americano diventi un sionista”. Qui era la connessione tra americanismo e sionismo: l’aspirazione alla libertà. Brandeis lo diceva in tutte le occasioni: “Il mio approccio al sionismo è avvenuto attraverso l’americanismo”. E la Dichiarazione Balfour del 1917 sembrò essere il suggello per le speranze di libertà del popolo ebraico che il sionismo rappresentava e che vedrà in Louis Brandeis il suo campione sul suolo americano. A Pittsburgh, nel giugno 1918, gli ebrei americani fondarono la Zionist Organization of America ed elaborarono un programma di sviluppo economico della Palestina, che successivamente venne a stridere con il progetto tutto politico di Chaim Weizmann, capo della World Zionist Organization. Il che non era contestato da Brandeis; solo che la visione del giudice di una rinascita economica del territorio, come precondizione per la nascita di uno stato ebraico, cozzava con l’urgenza del sionismo europeo di sfruttare al meglio la Dichiarazione Balfour per giungere rapidamente all’agognata fondazione di uno stato degli ebrei e così sottrarre gli ebrei europei dalla persecuzione degli antisemiti. Da quel momento, pur sempre intimamente sionista, Brandeis si defilò, lasciando tuttavia un’eredità di primaria importanza nella storia del movimento che diede vita a Israele.