Quand'è che verità e giustizia hanno smesso di andare a braccetto. Intervista al prof. Galantini
Chiacchierata con il docente della Cattolica, coautore con Palmaro del libro libro “Relativismo giuridico. La crisi del diritto positivo nello Stato moderno”
“Vi è una legge vera, ragione retta conforme alla natura, presente in tutti, invariabile, eterna, tale da richiamare con i suoi comandi al dovere, e da distogliere con i suoi divieti dall'agire male... A questa legge non è possibile si tolga valore né è lecito che in qualcosa si deroghi, né essa può essere abrogata; da questa legge non possiamo essere sciolti ad opera del senato o del popolo” affermava Cicerone ventuno secoli fa nel De re publica. Con altre parole il dottore della Chiesa San Tommaso d’Aquino ribadiva il concetto rincarando la dose: “Una legge ingiusta, contraria alla legge naturale o alla legge divina, non è una legge ma una corruzione della legge, e non obbliga in coscienza”. Anche Kant, che non è proprio una delle fonti del Catechismo, considerava la legge morale assoluta, libera da ogni condizionamento, universale e necessaria. Se diamo uno sguardo all’uso che le democrazie moderne fanno del diritto, si capisce bene che qualcosa nel corso della storia è andato storto. Se oggi i parlamenti si trovano a discutere di eutanasia dei minori, aborto, unioni civili, instradandosi su veri e propri campi minati etici e generando dei vertiginosi vuoti giuridici è semplicemente perché i tempi cambiano oppure esiste una motivazione più profonda? Pur partendo da visioni differenti e giungendo a conclusioni differenti, i tre grandi pensatori citati prima riconoscono l’esistenza di un nesso inscindibile tra verità e giustizia, che inevitabilmente condiziona l’elaborazione della norma, intesa come insieme di regole volte a disciplinare la vita organizzata.
Abbiamo discusso di questo argomento con il professore Luca Galantini, docente di Regimi Internazionali all’Università Cattolica di Milano e di Storia del Diritto all’Università Europea di Roma, e autore con il professor Mario Palmaro, scomparso prematuramente due anni fa, del libro “Relativismo giuridico. La crisi del diritto positivo nello Stato moderno” (2012, Vita e Pensiero). Un testo di riferimento per chi vuole comprendere come, quando e perché verità e giustizia – e di conseguenza il diritto – abbiano smesso di andare a braccetto. Un testo quanto mai attuale per comprendere il modus operandi delle democrazie moderne. Di certo la frattura che abbiamo evocato prima nasce attorno ad un concetto errato di libertà. Abbandonato il concetto di libertà come figlia della verità (“la verità vi renderà liberi” Gv 8, 32), la modernità le ha cucito addosso una veste nuova, intendendola come “capacità di compiere gli atti desiderati”. Dove si colloca temporalmente la recisione del nesso tra verità e libertà?
“La concezione di libertà che oggi noi viviamo ha radici lontane, e si colloca al tramonto del Medioevo” spiega Galantini. “Già dal Quattrocento il pensiero umanistico, il cosiddetto Rinascimento, pone le basi di una critica serrata alle ‘catene’ che la visione metafisica cristiana imporrebbe alla storia dell'uomo. Nelle molteplici discipline del pensiero, dalla religione con Lutero, alla politica con Machiavelli, alla filosofia ed al diritto con Grozio e Hobbes, si giungerà a convergere sul convincimento della autofondazione dell'uomo come soggetto al centro del cosmo. Questa visione antropocentrica dello stato di natura si sostituisce al cosmocentrismo di impronta medievale, in cui l'uomo, come afferma San Tommaso, manifesta la sua intelligenza nel saper contemplare con umiltà il fondamento della sua esistenza, cioè la Creazione come dono di Dio. Il diritto naturale cristiano quindi non può fare a meno di impregnare profondamente ogni atto di legge, ogni norma, di diritto consuetudinario, di quel carattere di equità e giustizia in quanto manifestazione della naturale, ragionevole ricerca della naturale bontà delle cose insita nella prassi umana. Tutto il contrario della problematica visione antropocentrica che si sviluppa dall'Umanesimo in poi, dove l'uomo, presunto artefice di sé stesso, concepisce la vicenda storica come uno stato di perenne costante conflittualità e lotta per la sopravvivenza: venuto a mancare il Padre, la legittimazione della legge non è più la giustizia, e dunque la libertà si traduce in una ineluttabile ricerca del proprio bene individualistico. I giuristi ben conoscono questa fase di privatizzazione della legge, in cui accanto alla tradizionale concezione della proprietà come dominium rerum, di impronta romanistica, si afferma la pericolosa temeraria convinzione del dominium sui, cioè l'uomo si considera padrone, in una chiave patrimonialista, del proprio corpo, di sé stesso, avviando quel processo di dissociazione della persona attraverso la volontà di dominio del mondo contrapposta al senso ultimo del limite che caratterizza ogni essere umano nella sua razionale perfettibilità e limitatezza. La secolarizzazione dell'Occidente è avviata, e con essa una visione assai ombrosa dell'uomo, che si afferma secondo la logica dello stato di natura e dell'homo homini lupus. Sarà di lì a poco nel formalismo giuridico delle moderne democrazie procedurali che troverà piena cristallizzazione la drammatica cesura tra norma di legge e giustizia: Hans Kelsen nel corso delle sue lezioni all’Università di Berkeley nel 1952 riconosceva che la scienza giuridica del XIX e XX secolo si dichiarava espressamente incapace di comprendere il problema della giustizia nella sua ricerca: né poteva essere diversamente, posto che la parola giustizia destituita di ogni autentica genesi poteva ridursi solo ad un flebile appello retorico alla fraternité orfana del Padre”.
Questo nuovo concetto di libertà non può dunque aver lasciato indenne il diritto, inteso come argine alla volontà assoluta dell’uomo. La privatizzazione del diritto citata da Galantini trova una perfetta sintesi nell’idolatria dei diritti denunciata da Simone Weil: la legge non viaggia più sui binari della verità ma diventa un’espressione della moda del tempo.
Spiega Galantini: “La storicizzazione del diritto e della legge è un fenomeno che dalla fine del Medioevo accompagna drammaticamente i processi decisionali della società politica e civile. La natura consuetudinaria del diritto medievale privilegiava il mos, il costume, la morale in quanto nel pluralismo giuridico delle esperienze localistiche, territoriali, di etnia, si trovava l'elemento conduttore comune e giustificativo del fondamento della legge nel diritto divino, nella naturalità delle Scritture e dell'amore cristiano. Si parla non a caso di jus commune nel Medioevo come di un fenomeno spirituale, che tutto compone armoniosamente e riporta il concetto stesso di sovranità e potere politico sotto la tutela di Dio. Gli esiti funesti dell'abbandono progressivo del diritto naturale e di ogni ‘giustificazione’ della legge secondo il concetto di giustizia e dunque di verità sono il primo frutto amaro del positivismo giuridico, che qualifica la legge come tale solo se scritta ed emanata da un'autorità politica sovrana. E' il dramma della cosiddetta legolatria, o dispotismo giuridico, già svelato nell'Ottocento nella critica ai facili miti dell'Illuminismo e della Rivoluzione francese. La legge non è più meritevole di rispetto e condivisione perché contiene la giustizia, bensì per il solo fatto di provenire dal detentore del potere politico. E' la famosa teoria della legge come espressione della volontà generale, una visione paleo-democratica della sovranità popolare, come opportunamente evidenziava il politologo Nicola Matteucci, perché rende sovrane le leggi e non gli uomini. La rigida astrattezza e generalità della legge, frutto del dispotismo giacobino, porta inevitabilmente a mitizzare il principio di legalità, ignorando il momento della ricerca della verità in ogni legge, in quanto fatto in sé del tutto irrilevante. Nella dogmatica dell'illuminismo si afferma una concezione della legge fondata su assiomi e miti che dimentica un momento fondamentale: la ricerca del bene comune, ovverosia della meritevolezza del bene che deve essere protetto dalla legge stessa. Ognuno può oramai vantare interessi, desideri, inclinazioni, aspettative personali come manifestazioni di un diritto che lo Stato deve tutelare. Ovviamente il venir meno del momento della riflessione sulla meritevolezza della tutela di quella data pretesa è determinato dall'espulsione del concetto di giustizia dal diritto. La giustizia per sua natura è unica ed assoluta, non possiamo avere tante giustizie e verità. Al contrario oggi lo Stato viene chiamato a garantire le più diversificate, individualistiche e conflittuali pretese del singolo soggetto: è il fenomeno della iperfetazione del diritto, ben descritto dal filosofo e politologo Marcel Gauchet. In una società atomizzata e liquida, per dirla alla Bauman, il momento della giustizia e della verità è un mero accidente. Gli orientamenti del legislatore in vari Paesi occidentali sui temi eticamente sensibili sono la cartine tornasole di quanto descritto: un legalitarismo demenziale che ha perso del tutto la memoria dell'origine del diritto e dunque fa carne da macello della dignità della persona umana secondo logiche che richiamano la celebre teoria del caos permanente cementate nel relativismo culturale dei nostri giorni che rifiuta la ricerca di un Logos universale”.
Vista sotto questa luce la democrazia non solo risulta essere un sistema molto più che perfettibile, ma diventa addirittura l’humus perché questo nuovo errato concetto di diritto possa attecchire. Esemplare in questo senso la critica del filosofo John Finnis: “l’essere democratica non è per una società condizione sufficiente per essere considerata degna e giusta di essere obbedita”. Consapevoli di muoverci su un terreno irto di pericoli dal punto di vista logico, chiediamo al prof. Galantini di fare luce per comprendere come a suo avviso dovrebbero cambiare le democrazie moderne.
“Va da sé che il modello democratico, di per sé stesso, non sia assolutamente condizione sufficiente per garantire la tutela della dignità della persona umana. Non solo Finnis ha evidenziato questo punto, ma lo stesso Bobbio ha mestamente riconosciuto che ogni teoria sui diritti umani, per quanto ragionevole e condivisibile, non sia in grado di giustificarsi razionalmente. Figuriamoci un istituto politico come la democrazia. Il giurista Zagrebelski, con acume, nel suo libro Il diritto mite, afferma espressamente che ogni regime democratico fondato sulla regola della maggioranza introduce nel mondo del diritto un elemento di artificialità in quanto il diritto è il prodotto della lotta tra le fazioni politiche disciplinate nell’alveo della stessa Costituzione. Il diritto naturale in quanto affermazione di un ordine giusto e incontrovertibile non sarebbe dunque compatibile con la democrazia che è invece legata all’opinabilità e dunque alla relatività. La democrazia dunque ucciderebbe in nuce il diritto naturale attraverso le convenzioni del compromesso tra logiche di maggioranza e minoranza, e quindi ogni qualsivoglia proposta sui diritti fondamentali dell’uomo illuminata dal concetto di giustizia. Il filosofo laico Habermas riconosce il fallimento del concetto di laicismo in contrapposizione al fecondo apporto alla sfera pubblica, politica e sociale che la religione può portare. Nel celebre confronto con l'allora cardinale Ratzinger all'Accademica Cattolica di Baviera, Habermas ebbe a convenire sulla necessità di un dialogo polifonico tra potere politico e religione, tra laicità e fede, al fine di dare un senso compiuto alla convivenza del genere umano”.
Tutto il contrario di ciò che sta accadendo ora. L’indirizzo della politica non è nemmeno più quello di convergere su grandi strutture ideologiche, ma di rendere il processo di strutturazione estremamente liquido – per usare un termine in auge negli ultimi anni – il tutto alla schizofrenica ricerca del consenso. Se il riflesso pratico del potere è la legislazione e in essa non esiste rimando alla verità, l’unico scopo – ormai dichiarato palesemente – non è più quello di affermare un determinato modello di società, ma semplicemente di instaurare una dittatura della maggioranza, dove alla base viene concessa l’illusione di poterne in qualche modo influenzarne le decisioni.
“Nelle aporie culturali della posmodernità la verità – e la giustizia di conseguenza – cessa di essere un bene pubblico, o meglio, un bene meritevole di tutela” incalza Galantini “posto che il sistema democratico pluralista per sopravvivere deve necessariamente essere indifferente ad una scelta di valori al fine di garantire le differenti concezioni delle libertà individuali, il rispetto delle coscienze, delle convinzioni religiose etiche e morali: ma se il sistema politico democratico deve garantire la sua neutralità o indifferenza di fronte ai valori, ne deriva l’assegnazione di un potere pressoché illimitato alla volontà generale della maggioranza che si forma via via nelle aule parlamentari anche e soprattutto laddove si debba definire cosa sia giusto o meno ai fini della promulgazione di una legge. I rischi che ne derivano sono enormi in sede di tutela della persona umana. Penso ai riti temerari plebiscitari della democrazia del web, con cui ci si illude di dare una patina di legittimità a processi decisionali che interessano milioni di cittadini di uno Stato garantendo l’emozionale virtuale partecipazione al voto attraverso un semplice click del mouse. Annota il costituzionalista Passerin d’Entreves che secondo il giusnaturalismo la legge non è soltanto misura dell’agire umano, ma anche giudizio di valore dell’agire umano, perché il bene ed il male sono le condizioni valutative dell’obbligo giuridico. Ma il diritto positivo non può adempiere a tale finalità perché – incalza Passerin d’Entreves – incarna solo i valori di un determinato gruppo d’interessi, o richiamando Zagrebelski, le logiche del conflitto tra maggioranza e minoranza parlamentare”.
Al termine di questa conversazione viene spontaneo pensare che la scelta irrinunciabile della modernità di abbandonare il rapporto con la religiosità e abbracciare il concetto di laicità possa essere stato uno dei peggiori errori della modernità. Come ebbe a dire Joseph Ratzinger in un incontro tenutosi a Subiaco nell’aprile del 2005: “La vera contrapposizione che caratterizza il mondo di oggi non è quella tra diverse culture religiose, ma quella tra la radicale emancipazione dell’uomo da Dio, dalle radici della vita, da una parte, e le grandi culture religiose dall’altra”.
Ribatte Galantini: “Potrei provocatoriamente rammentare Giovanbattista Vico, secondo cui dietro ogni grande questione politica irrisolta si cela una questione religiosa irrisolta. Il contenuto delle Costituzioni scritte moderne, quel catalogo di diritti fondamentali della persona umana, pone non pochi problemi in termini di assolutezza, giustizia e legittimità: infatti tutte le Costituzioni non pongono, non creano, non predeterminano o eliminano a proprio piacimento la giustizia ed i diritti fondamentali dell’uomo, ma tuttalpiù si limitano a riconoscerli come preesistenti alla propria azione di catalogazione. Il costituzionalismo moderno, cui si appella il positivismo giuridico, si riduce dunque ad essere un surrogato artificiale del diritto naturale, un modesto succedaneo, come ben dice Robert George. Da questa precisa consapevolezza del percorso storico dei presupposti ideologici delle istituzioni giuridiche secolarizzate contemporanee – e dei limiti di tali presupposti – è indispensabile partire a mio avviso per saper proporre con consapevolezza paradigmi giusnaturalistici in grado di orientare assiologicamente la storia delle istituzioni politiche dell’umanità e dei diritti che le ispirino secondo il primato della giustizia. Il giurista deve saper argomentare l’evidenza: l’evidenza del fallimento del senso di giustizia insito nel diritto positivo. Coglie efficacemente questa irrisolta antinomia dell’orizzonte giuridico moderno Benedetto XVI nel saggio L’elogio della coscienza, laddove afferma che noi non desideriamo che lo Stato ci imponga una determinata idea del bene e l’attenzione alla libertà di ciascuno ci sembra consistere oggi essenzialmente nel fatto che lo Stato non pretenda di risolvere il problema della verità: la verità non appare conoscibile nella sfera sociale. Il tentativo di imporre a tutti ciò che a una parte dei membri della società sembra essere verità è perciò reputato come asservimento delle coscienze; la nozione di verità viene risospinta nel dominio dell’intolleranza e di quanto è profondamente anti-democratico”. Ma se la carità è privata di una retta consapevolezza di ciò che è giusto o ingiusto è assai ragionevole dubitare che si traduca in leggi che perseguono il bene e dunque la verità. Il mito della laicità dello Stato, e la sua deriva nel laicismo ha portato a dissolvere quel patrimonio millenario del senso religioso che è stato l’architrave nella formazione del pensiero occidentale, dall’antica Grecia ad oggi. Di fronte al drammatico nichilismo della mancanza di senso dell’esistenza che si irradia dall’organizzazione politica della società occidentale contemporanea il recupero del virtuoso dialogo tra fede e ragione appare l’unica vera matura risposta che l’uomo può dare”.