Childish Gambino
Lasciate perdere J-Ax e Fedez. Il disco da ascoltare è “Awaken, My Love!”, capolavoro di eccentricità
Siamo qui, perplessi, a trovare la posizione per sentire “Comunisti col Rolex”, il singolo di J-Ax e Fedez che gronda ironia e opportunismo e culmina in quel ritornello “Bella ciao / bella ciao ciao / bella ciaone” che è un segno dei tempi mica da sottovalutare. Bella Ciaone. E versetti come “Conosco più di un punkabbestia col papà avvocato / Che fa finta d’esser povero perché non lo è mai stato / Io mi contraddico come un pacifista armato / Sono partito comunista ma non ci sono arrivato” rappa J-Ax e l’altro che gli risponde “Navigo nell’oro dopo sacrifici e stress / Sono Colombo alla scoperta dell’American Express”. Che dire? Niente, forse. L’hip hop dall’altra parte dell’oceano è diventato una radice forte del rinnovamento culturale, ma qui da noi pare dare il suo meglio quando si converte in commedia all’italiana, alla Ric e Gian, a sbertucciare delle verità del nostro ridicolo. Tanto vale andare audacemente in cerca dell’ultimo grande disco dell’anno, per chiudere bene un 2016 che, almeno nei suoni americani, è stato prodigo di soddisfazioni.
A questo scopo sorvoliamo educatamente sul nuovo album di Pharrell, “Hidden Figures”, colonna sonora con troppe ambizioni, a conferma del curioso destino di questo artista, che è il “risolvi guai” in casa altrui, colui che con pochi tocchi conduce a perfezione il progetto di qualcun’altro, ma che poi, quando gli tocca di giocarsela in proprio, smarrisce il senso dell’equilibrio, insegue obiettivi troppo ambiziosi e malati di grandeur. Per nostra fortuna un ultimo grande disco a cui consacrare le vacanze in arrivo, in effetti è uscito e ne dobbiamo essere grati a Childish Gambino, che ce lo consegna come sua terza produzione. Chiariamo: quel nome cosi design ovviamente è falso, lui si chiama Donald Glover ed è un personaggio vulcanico, attore, sceneggiatore, produttore, prima ancora di dedicarsi alla musica. Anzi, una volta che ha deciso di farlo, Donald si è creato questo avatar, con l’intenzione originale d’includere in esso non solo ciò che voleva scrivere e cantare, ma anche tutto quanto pensava di citare, rifare, imitare, rigenerare. Dunque Childish Gambino è prima un progetto che una personalità, ma questa idea non è mai andata giù alla critica musicale Usa, che nei confronti di Glover ha sempre usato un metro di giudizio decisamente severo. L’attore-sceneggiatore che mette i panni del rapper e propone la sua versione di pop futuristico, è sembrata agli specialisti un’eresia e un eccesso di presunzione e Gambino non smette di pagare questo prezzo anche in occasione di “Awaken, My Love!”, che pure offre una novità sostanziale: niente più rap, via dalla terra dell’hip hop e, come il più imprevedibile e artificioso degli istrioni, immersione totale nel territorio del funk anni 70. L’album è un formidabile remake, grazie alla maniacale e puntigliosa ricerca dei suoni attuata dal produttore svedese Ludwig Gorasson ed è una geniale messa in scena di un disco partorito dal cuore di quel decennio, tra Parliament-Funkadelic, Earth, Wind & Fire, Sly and the Family Stone e un Prince bambino.
Operazione, quindi, ancora una volta teatrale, da parte del pirotecnico genio che nel frattempo s’è reso titolare del migliore serial tv uscito negli States di recente, “Atlanta”, di cui cui è produttore, autore e attore, antidoto alle fantasie kitsch di “Empire” e che lui stesso presenta così: “Volevo mostrare come ci si sente a essere neri”. Morale del discorso: Glover/Gambino crede nella rappresentazione, nel re-enactment, nella forza del riuso di suoni e immagini del passato per raccontare storie di oggi – in particolare quelle che hanno dato vita al patrimonio culturale afroamericano contemporaneo. “Awaken, My love!”è una gemma e i suoi pezzi sono altrettanti capolavori di eccentricità, sorprese e rievocazioni, con la sua virtuosistica vocalità che mugola, singhiozza, imbocca falsetti spericolati, duetta con chitarre al wah wah e liquidi clavinet. Tutto ciò è una recita, un sussidiario del funk e non possiede la purezza dell’artista “nativo”? Chissene importa. Proprio questa lettura drammaturgica di un genere, da parte di un artista che attua la sua personale ricognizione nei fattori formativi di una cultura, appare inedita e fertile, parte di un quadro sempre più ricco e necessariamente difforme e discontinuo. Poi ripensiamo ai nostri “Comunisti col Rolex”. A quanto sia lunga la strada per lasciare indietro Petrolini e i retaggi dell’avanspettacolo. E forse, se facciamo in tempo, prenotiamo una vacanza da cine-panettone, all’estero, lontano.