La cultura in Italia s'è fatta lacrimosa perché il piagnisteo conviene
Dalla scuola ai giornali della domenica, si sventola il male del mondo per rendere gli italiani persone migliori
Dio, come odio la domenica, sibila esasperato il protagonista di Look back in anger di John Osborne: “E’ sempre così deprimente, sempre tutto uguale. Sembra proprio che non riusciamo ad andare avanti. Sempre lo stesso rituale: leggere i giornali, bere il tè, stirare. Ancora qualche ora e un’altra settimana è andata”. Sessant’anni dopo non è cambiato molto, specie per quel che concerne i giornali. Della domenica il personaggio di Osborne detesta gli inserti culturali che infestano il giorno libero; li legge e si irrita, battibecca con la moglie, passa la giornata prigioniero di questa giungla di quotidiani e rotocalchi, accumulati nella vana speranza che il tempo li renda utili e abbandonati nel sospetto che siano prodotti al solo scopo di far sentire ignoranti i lettori. Sono passate settimane a migliaia dal 1956 ma il principale progresso è che gli inserti culturali di oggi sembrano fabbricati allo scopo di intristirci.
Al centro di Repubblica c’è Robinson con la copertina dedicata questa domenica al “Pensare un mondo migliore”. Sembra ottimismo ma si parla di come il passato fosse ricco di opportunità mentre adesso tutto è cambiato. In taglio basso sulla prima pagina si menziona la bellezza del saper rinunciare a scalare le montagne. All’interno, un intervento di Zadie Smith e un discorso di Rutger Bregman sono collocati sopra la parola “DISPERAZIONE” scritta in cubitale stampatello, metà a pagina 18 e metà a pagina 19, col seguente riassunto: “Abbiamo una percezione negativa del futuro. Ma la vera crisi del nostro tempo non sta nel fatto che ce la passiamo male: il problema è che non riusciamo a inventarci nulla di meglio”. Ci consolerà la sezione libri? A pagina 22, “La domestica solitudine”. A pagina 23, “Le ceneri di Europa” su massacri coloniali, Grande Guerra e apocalisse nazista. Proviamo con gli Spettacoli. “Silvio Orlando e le sfumature del dolore”. Gran finale, l’intervista all’oncologo Alberto Mantovani: “Il compito della medicina è rendere sopportabile la nostra dose di infelicità”.
La Lettura del Corriere della Sera parla di morte termica dell’universo già a pagina 2. Seguono tre pagine sull’impossibilità di vivere oltre i 115 anni, illustrate con foto in bianco e nero di centenari piuttosto cadenti. Sfogliando si trovano disastri ambientali, schiavismo, ben due articoli su temi diversi intitolati entrambi con una domanda su chi abbia ucciso chi. Nell’abituale colonna, Antonio D’Orrico recensisce un libro mettendogli voto 0. Televisione: una serie tv distopica che immagina una società in stragrande maggioranza composta da ultrapoveri. Graphic novel: un incidente aereo. Poi un portfolio di immagini da una baraccopoli sotto un viadotto calabrese, un racconto sulla poliomielite, un approfondimento sull’amianto. Le pagine conclusive sono dedicate a una retrospettiva storica sul fiume Reno il cui intento è “relativizzare la crisi europea”. L’austera Domenica del Sole 24 Ore prende le mosse dal Breviario di monsignor Ravasi, dedicato alla frase di un autore olandese che paragona la vita a un fiammifero. Dentro troviamo un articolo su Stendhal con “povertà” nel titolo e uno su Max Porter con “dolore” nel titolo; sotto ci sono, immancabili, i profughi, e di fianco un bel “Conflitto generazionale con uxoricidio”. E pensare che siamo soltanto alla doppia pagina dedicata alla letteratura. Dopo il pellegrinaggio sulle tombe dei dodici apostoli, il dorsetto per bambini si apre con la questione: “Ma muoiono anche gli immortali?”.
Su Tuttolibri della Stampa, conservato dal sabato, appaiono “Zombie assetati di sangue”, “Il Vietnam dei sentimenti”, “Naufragare nella bellezza” e “I bulli disperati di Lipsia”. Un po’ più allegra è la ControCultura del Giornale, dove comunque campeggia un ottimo articolo di Luigi Mascheroni sull’altrettanto ottimo Dante Virgili, autore però di opere dai titoli non mai rasserenanti quali “Metodo della sopravvivenza” e “La distruzione”. Se qualcuno si dedicasse scientificamente allo scandaglio lessicale di inserti e terze pagine, ricercandovi termini collegati alla sofferenza in ogni sua forma, ne ricaverebbe in breve tempo tanto materiale da poter dedurre che in Italia la cultura è punitiva. Serve a trasmettere a chi si documenta un’impercettibile ma costante sensazione di dolore che induce alla lamentela e al pessimismo, oltre a rendere sgradevole il confronto quotidiano con la mole di attività creativa senza precedenti che la nostra nazione sta producendo. Forse è il pubblico stesso che vuole soffrire, chissà; il sospetto deriva da una lettura dadaista delle hit parade editoriali, donde emerge che in Italia questa settimana sono stati venduti soprattutto libri con in copertina le parole “freddo”, “fragile”, “ombra”, “spiriti”, “notte”, “tradimento”, “inferno” (sia D’Avenia sia Dan Brown) e perfino “longevità”, che è una maniera elegante di parlare di vecchiaia e morte senza nominarle. Nella Varia, la lugubre aura del sacrificio e dell’infermità permea il titolo di “Mangiare bene per sconfiggere il male”; perfino Bruno Vespa, sul podio della Saggistica, cede alla malinconia del “C’eravamo tanto amati” mentre il sottotitolo del nuovo volume della saga della Schiappa di Jeff Kinney, sul podio per Ragazzi, è “Non ce la posso fare”.
Nemmeno noi ce la possiamo fare, visto che se tentiamo di diventare colti è più probabile che diventiamo depressi. Anche a scuola la cultura ha ormai preso il posto della bacchetta e viene picchiata sulle mani degli studenti acciocché facciano i bravi. Il sapere extrascolastico con cui vengono messi in contatto negli anni d’oro della vita consiste per lo più in giornate della memoria, ricerche sui genocidi, mostre fotografiche sulle guerre, sulla miseria, sui migranti. Niente di bello e gioioso; il male del mondo viene sventolato dinanzi agli occhi dei ragazzi a titolo esemplare e in maniera così insistita che, quando tornano in aula a studiare Kierkegaard, si sentano sollevati. Né paghi ci si trattiene dall’imporre loro la lettura, magari di libri che spieghino agli adolescenti i fenomeni adolescenziali: storie di giovani che soffrono e muoiono, storie di giovani che sbagliano e si emendano; storie edificanti, didattiche, il cui principale effetto è la sterilizzazione della curiosità. Ingollate come olio di ricino le letture obbligatorie, appena suona l’ultima campanella i ragazzi guardano con giustificato sospetto a tutto ciò che possa essere identificato come cultura, per timore che serva a migliorarli coercitivamente. Il primo motivo per cui in Italia la cultura si è fatta triste è proprio l’essersi arrogata il serioso intento di rendere gli italiani persone migliori, rinunciando a essere intrattenimento di alto livello.
La cultura ha rinnegato la vocazione a far passare il tempo in maniera gradevole per torturarci facendoci sperare che finisca il prima possibile. La tristezza è un marchio di garanzia. Avete notato quanto spesso ricorra la locuzione “un giorno triste per la cultura”? Che muoiano in un sol colpo Umberto Eco e Harper Lee, che muoia Sermonti o Abbado, Virna Lisi o Muhend U Yahia, c’è sempre qualcuno che commenta che è un giorno triste per la cultura – e poco importa che ignoriate tutto di Muhend, traduttore di Pirandello in berbero, perché a dargli dignità culturale basterà la tristezza causata dalla sua morte. La cultura è un calendario lacrimoso, una commemorazione retroattiva che rende bigie tutte le vacche appiattendo le differenze di valore. Gli ingessati necrologi nelle terze pagine sortiscono un duplice effetto: fanno sentire ignoranti i lettori, che scoprono solo postuma l’esistenza dei commemorati; rendono importanti i commemorati, con un riconoscimento tardivo incontestabile perché dei morti non si può dir male. Crepa il pittore di paese, un dopolavorista che esponeva croste in personali allestite nello scantinato? Qualche assessore o giornalista locale lesto a dichiarare che è un giorno triste per la cultura lo troverete di sicuro e, per quanto negletta e mediocre sia la vostra produzione creativa, potete consolarvi all’idea che un giorno lontano qualcuno vi commemorerà. Allora sarete cultura a pieno titolo.
La cultura è lamentosa perché il piagnisteo conviene: è un modo di rifiutarsi di capire le cose sembrando ciò nondimeno intelligenti. Il cipiglio è sintomo di disagio nei confronti dell’oggetto culturale: implica una scarsa dimestichezza cui si cerca di ovviare ponendo distanza fra sé stessi e il fruitore, il quale tramite il ruolo sacerdotale del critico o dell’artista si rassegna al fatto che tutto ciò che è colto sia ammantato di sacralità impenetrabile. La tristezza della cultura consente di assumere una maschera affranta mentre la si pratica, così da fugare ogni timore di poter essere messi in ridicolo. E’ un modo per evitare che qualcuno salti su a dire che qualcosa è una cagata pazzesca, con novantadue minuti di applausi, e per paura di figuracce simili si patrocina la più terribile ignoranza: il non sapere che qualsiasi oggetto culturale (in letteratura, cinema, musica, arte, tutto) è sempre e soltanto uno strumento per conseguire il piacere, che sarà criterio volubile e inafferrabile ma alla lunga garantisce la sopravvivenza del meglio.
La cultura è un mezzo che tenta di spacciarsi come fine quando non si sente all’altezza, come oggi in Italia, in maniera tale da porsi al riparo dall’ironia e dal sorriso. Quand’è incerta di sé, li scorge come minacce alla propria credibilità e li combatte con toni e argomenti mesti che fanno sempre fare bella figura. Se volete un’idea concreta di com’è combinata la nostra cultura pensate che, mentre “Fuocoammare” vince l’Oscar europeo e Gianfranco Rosi proclama serissimo che il proprio film reca un messaggio universale contro i muri dal Messico a Lampedusa, in Italia si sono estinti gli umoristi. Non ci sono più i Campanile, i Guareschi, i Mosca; non c’è più uno come Flaiano, secondo il quale da noi non si dovrebbero premiare gli autori ma i lettori, poveracci.