Franca Sozzani (foto LaPresse)

Franca Sozzani, rivoluzionaria della moda che non rompeva le regole, ma ne inventava di nuove

Fabiana Giacomotti

“Sì che sono una vincente, ma non perché sia presuntuosa, ma perché tutte le mie idee hanno avuto successo”

Franca Sozzani si era laureata magna cum laude con Giancarlo Bolognesi in Filologia germanica. Per questo, credo che del “male incurabile” di cui è morta ieri, a sessantasei anni, dopo un decorso rapido, trovasse intollerabile anche la definizione, buonista e ipocrita come lei, che “non voleva piacere a tutti”, di certo non era. Combatteva il cancro da presidente di IEO, a cui aveva dedicato la scorsa settimana l’ultima delle sue famose, elegantissime serate charity, e da professionista poco incline alla retorica e al piagnisteo. Usava le parole con la precisione attenta, a tratti parsimoniosa, che hanno le donne lombarde borghesi e di educazione severa. Non ne spendeva una in più del necessario. Al limite sorrideva, di quel sorriso un po’ di circostanza che nel mondo della moda ti insegnano a sfoggiare quando qualcosa, o qualcuno, proprio non ti piacciono. Il sorriso come scudo, come barriera. I capelli portati lunghissimi, ancora infantili contro ogni bienséance.

 

 

Era direttore di Vogue dal 1988, un record assoluto in un mondo dove la gente viene schiacciata ogni giorno dal peso degli interessi che ruotano attorno al business della vanità, ed era direttore editoriale di tutte le pubblicazioni nazionali Condé Nast da qualche anno. Nel gruppo era entrata però giovanissima, rispondendo a un annuncio dopo un primo matrimonio naufragato dopo tre mesi. “Perché ti eri sposata?”, le chiede il figlio Francesco Carrozzini, fotografo e regista, nel biopic “Franca: chaos and creation” presentato all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, che i critici si erano preparati a stroncare a dal quale, invece, erano usciti sedotti. “Perché avevo già il vestito”. Medusati dalla forza di questa donna che arrivava dove voleva e che faceva piangere gli stilisti. Senza di lei, che ne seguiva tanti, passo passo, con il suo gruppo di lavoro, un sistema complesso di promozione e sostegno che è stata la fortuna della Condé Nast Italia e che tante altre case editrici hanno tentato vanamente di imitare, le sfilate semplicemente non iniziavano.

 

“Sì che sono una vincente, ma non perché sia presuntuosa, ma perché tutte le mie idee hanno avuto successo”. Quelle editoriali, senza alcun dubbio. Di lei ammiravi l’assoluta capacità non tanto di “rompere le regole”, come spesso si è detto, ma di inventarne di nuove, convincendo i suoi editori ad assecondarle persino contro il parere degli investitori pubblicitari, che di questo settore sono il sostegno fin dalla nascita, duecento anni fa. La “black issue” con le modelle solo di colore; il numero contro la chirurgia estetica, con Linda Evangelista vestita couture che scappa dalla sala operatoria semi-fasciata e che tutti, ancora, conserviamo.

 

Le modelle curvy, sontuose nei vestiti grandi, proprio lei che mangiava pochissimo e che alle “Invasioni Barbariche” si era concessa il lusso di inchiodare Daria Bignardi e qualche migliaio di italiane alla loro insipienza: (“Quand’è l’ultima volta che ha mangiato un tiramisù?”. “Che cos’è il tiramisù”?). Ieri l’annuncio della sua morte, “la notizia più triste che abbia mai dato”, portava la firma di Jonathan Newhouse, che nel documentario dichiarava come, qualche volta, la volontà rivoluzionaria di Franca Sozzani avesse messo a dura prova la sua pazienza. Lei aveva rischiato a lungo. Un numero dopo l’altro. Poi, aveva vinto. Diceva sempre di aver sempre pagato tutto in prima persona. E di non aver mai conosciuto la grazia del grande amore.

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