Non nascondiamo l'islam
Silenzio su vittime e cause, censure culturali e giuridiche. La falsa “islamofobia”
In questo intervallo sospeso tra le stragi avvenute – Nizza, Orlando in Florida, Dacca – quella di lunedì a Berlino e quelle che avverranno, si può prendere fiato e buttar giù tre o quattro proposizioni non a caldo sul terrorismo islamico. Anche per fare un po’ d’ordine in mezzo tante parole. I caduti di Dacca, per cominciare, sono gli ultimi degli ultimi tra gli italiani vittime del terrorismo. Sono cittadini caduti all’estero quasi del tutto dimenticati forse perché soggetti sparsi che non rappresentano un gruppo sociale riconoscibile che è possibile ricordare in uno specifico territorio come le vittime delle stragi eversive degli anni ’70. Eppure il prezzo pagato dalla nostra collettività è già alto. Senza tornare indietro sino alle due stragi di Fiumicino nel dicembre 1973 e nel dicembre 1985, e se si individua come momento di partenza l’attentato alle Torri Gemelle del 2001, le vittime civili italiane degli ultimi anni sono ormai più di 40. In Iraq, Afghanistan, Arabia Saudita, Egitto, Nigeria, Turchia, Bangladesh sono morti tecnici, cooperanti, lavoratori in alberghi, semplici turisti tra i quali i quattro pensionati morti al museo del Bardo in Tunisia di cui non si ricordano nemmeno i nomi. Poi Cesare Tavella, cooperante in Bangladesh ucciso nel settembre 2015, la prima vittima italiana rivendicata dall’Isisi e Valeria Solesin uccisa nell’attentato al Bataclan di Parigi. Il ristorante di Dacca è la strage in cui sono morti contemporaneamente più cittadini italiani, uccisi insieme ad altri cittadini stranieri che non sapevano recitare versetti del Corano. Sono sei i cittadini italiani vittime della strage sul lungomare di Nizza. Senza dimenticare i numerosi tecnici e giornalisti rapiti, spesso rilasciati dopo molti mesi di sofferenze. Nessuno quasi li ricorda, i loro nomi in breve evaporano come quelli delle vittime degli incidenti stradali. Effetto questo di una autocensura che cancella tanto le vittime quanto l’identità politico-religiosa dei loro assassini.
Parliamo allora di questa identità. Affermare che il terrorismo attivo in quasi tutti i continenti del mondo nulla abbia a che fare con l’islam è un pensiero puerile anche se lo raccomandano alcune risoluzioni dell’Unione europea, alcuni famosi magistrati italiani procuratori antiterrorismo e purtroppo, con un’uscita poco felice, anche Papa Francesco. Infatti il terrorismo di oggi nasce all’interno di un discorso religioso islamico. Tanto i radicali quanto i “moderati” sono entrambi figli dell’islam. E a molti purtroppo sfugge il lato oscuro dell’impostazione che nega il rapporto islam-terrorismo. Se i crimini dell’Isis e di Al Qaeda nulla hanno a che fare con l’islam, perdono infatti ogni significato gli sforzi nei confronti degli islamici “moderati” affinché reagiscano e trovino all’interno del mondo islamico anticorpi affinché eventi simili non si ripetano. Consente loro di stare in silenzio e, come troppo spesso è avvenuto, di stare alla finestra a guardare. Negare che si tratti di terrorismo religioso è negare la comprensione delle sue origini. E’ sufficiente infatti nel coacervo contraddittorio del Corano e anche tra gli Hadith del profeta, scegliere la sura e cioè il versetto che si preferisce, quella che esalta la violenza contro i miscredenti o quella più tollerante, perché ogni fedele possa collocarsi in una delle molte realtà dell’islam, dalle più radicali alle più pacifiche, in una frammentazione resa possibile dalla mancanza di un’autorità religiosa centrale. Se così non fosse e il terrorismo di oggi, come vorrebbero alcuni, nascesse solo dalla povertà e dal sottosviluppo, che pure incidono, in molti paesi del Sudamerica e dell’Africa non islamizzata, si sgozzerebbero i turisti e si metterebbero bombe nei ristoranti e negli alberghi.
Ma ciò non avviene perché appunto il pensiero ossessivo che muove il terrorismo odierno nasce dal Corano e dai suoi derivati. Il terrorismo islamico è ideologia allo stato puro, violenza quasi del tutto autogenerata. Il seme di ogni deriva violenta esiste del resto già dagli albori di questa fede, storicamente espansionistica e conflittuale. L’islam è l’unica grande religione fondata da un capo militare. L’islam soprattutto tratta l’umanità “all’ingrosso”. La sua espansione si è quasi sempre basata sulla conquista e non sulla convinzione. Conquistato un territorio, divenuto quindi Dar al-Islam, terra dell’islam, i credenti o coloro che devono diventare tali sono semplicemente tutti coloro che vi abitano sopra. Da qui deriva la progressiva erosione in tutti paesi islamici delle comunità degli appartenenti ad altre fedi, il divieto di propagandarle e la proibizione assoluta dell’apostasia: diventare musulmano non è una strada reversibile. Soprattutto non c’è nell’islam alcuna prospettiva, come nel cristianesimo, di un Dio che parla alla coscienza del singolo uomo. Le scelte individuali del singolo, che del resto non ha alcun modo di rapportarsi con Allah ma deve solo obbedirgli, non hanno posto. La sottomissione della coscienza individuale ha provocato nel tempo non pochi guasti. Basti pensare alla povertà della ricerca scientifica, con il suo portato di arretratezza, nei paesi islamici e basti confrontare la modesta normativa giuridica del Corano, fatta di imposizioni e di divieti anche bizzarri con il corpus del diritto romano, origine del diritto civile giunto sino a noi.
Ma tornando al problema dello scivolamento di tanti musulmani in tanti paesi verso il terrorismo proprio dal quadro culturale e religioso ora accennato discende che il travaso è possibile in ogni momento e che si deve correttamente parlare di transitabilità. La radicalizzazione può essere immediata e questo aspetto non ha paragone con quanto vi è stato nel terrorismo interno. Le Brigate rosse e le organizzazioni similari “laiche” impiegavano anni per “costruire” un militante regolare, un soggetto cioè, operaio o studente che fosse, disponibile a lasciare i relativi agi della vita normale e a passare alla clandestinità. Nel terrorismo di matrice islamica non è affatto così. La strage di Nizza, quella di Berlino e altri attentati avvenuti in Europa e altrove, così come il fenomeno dei foreign fighters offrono molti esempi di cambiamenti improvvisi che maturano nel giro di pochi giorni come un’infezione. Tanto l’immigrato senza storia quanto il musulmano di seconda generazione, tanto lo studente borghese come a Dacca quanto il piccolo malavitoso che sino a poco prima non frequentava nemmeno la moschea, possono transitare nel giro di poche settimane al radicalismo islamico e alla disponibilità a compiere azioni in suo nome. La suggestione e la forza attrattiva operano come un’improvvisa infezione senza nemmeno il bisogno di un contatto diretto con esponenti del radicalismo, grazie alla mediazione di Internet e alla “chiamata” e agli appelli diffusi dai siti.
Transitabilità quindi per evitare la quale le realtà musulmane anche più moderate sono tuttora ben lontane dal costruire antidoti culturali. Sono infatti incapaci di riconoscere che l’epidemia viene dall’interno del proprio mondo e più propense, per comodità, a dare implicitamente la colpa all’esterno, all’impatto fuorviante di tanti giovani con il “corrotto” mondo occidentale. Vi è poi la questione del “multiculturalismo”, parola entrata nel lessico comune ma senza comprenderne appieno il significato, darne un contenuto preciso. E’ utile, per capire senza travisamenti, qualche esempio, tra i tanti possibili. Una recente sentenza della Corte costituzionale tedesca ha dichiarato illegittimo il divieto di portare il velo per le insegnanti delle scuole pubbliche. Le conseguenze della sentenza rischiano di essere drammatiche per delle ragazzine di 10-12 anni, nel momento del loro primo affacciarsi sul mondo, che magari in casa conducono una battaglia quotidiana per non portare il velo e per altre libertà. Queste ragazzine verranno di sicuro iscritte nelle scuole con insegnanti velate e così anche la scuola contribuirà ad aumentare la pressione psicologica su queste ragazze.
Anche di peggio ha fatto l’Arcivescovo di Canterbury, capo della chiesa anglicana, che ha proposto l’istituzione di un sistema parallelo di sharia in Gran Bretagna con un aumento delle competenze del Consiglio islamico che in quel paese giudica già di matrimoni e divorzi musulmani. Fortunatamente la proposta è stata accolta con indignazione da buona parte dell’opinione pubblica. Sempre più spesso in Francia, in Germania, in Inghilterra si evita, oltre alle vignette satiriche, di pubblicare libri, di rappresentare opere teatrali, di esporre opere d’arte perché offenderebbero la “sensibilità” dei credenti musulmani e provocherebbero l’ira e la reazione del mondo islamico. Esempio simile di “multiculturalismo” trasformato in resa culturale è stata a Roma, in occasione della visita del presidente della Repubblica islamica iraniana, la copertura delle statue che rappresentavano, anche in nudità, dei e personaggi dell’antichità. Questo multiculturalismo è da rifiutare. Lo stato è formato da cittadini, non da tante comunità separate ciascuna con le sue leggi, comunità di cui qualcuna pretende di stabilire limiti alla libertà di tutti gli altri. A questa visione, che tra l’altro anche all’interno di ogni comunità identitaria porta alla prevalenza dei più forti che pretendono di rappresentarla e alla sottomissione di tutti gli altri, non vanno contrapposti atteggiamenti di xenofobia o, peggio, indulgenze verso forme di razzismo. L’unica strada rispettosa della Costituzione, delle nostre leggi e delle convenzioni internazionali, prima di tutte quella sui Diritti dell’uomo, è quella del rafforzamento dell’universalismo dei diritti, da non confondere con il multiculturalismo, universalismo in ogni campo: nella famiglia, nelle espressioni sociali, quindi il diritto di studiare, lavorare, uscire, frequentare chi si vuole, nelle scelte religiose che devono appartenere solo alla coscienza dei singoli. Lo stato e la democrazia si costruiscono sulla cittadinanza, non tollerando ghetti monoculturali.
E, per concludere, merita una riflessione la pretesa islamofobia, pseudoconcetto di cui si legge un giorno sì e un giorno no sulla stampa. L’espressione islamofobia, complice una stampa sventata e superficiale, è sempre più presente nei discorsi pubblici e anche negli atti giudiziari e nelle denunce di avvocati che sostengono stabilmente organizzazioni islamiche e denunciano presunte discriminazioni o diffamazioni nei confronti di tale religione e dei suoi aderenti. Ma islamofobia è solo un’invenzione che cerca di dare forma con un’espressione a qualcosa che non esiste nella realtà, quantomeno non in quella italiana. E’ una parola priva di contenuto che i supporter radicali dell’islam sono riusciti accortamente a diffondere nel linguaggio comune e anche in quello istituzionale. Tecnicamente, per usare i termini degli studiosi del linguaggio, è una “ipostasi”, cioè l’artificio grazie al quale una parola non si riferisce a una realtà che preesiste, per descriverla, ma la crea e dopo aver creato una realtà inventata consente di utilizzarla in molti modi tra cui colpire chi viene collocato all'interno di quella realtà fittizia. Infatti non vi è nessuna islamofobia in Italia. Nessuno è discriminato in quanto musulmano nei luoghi di lavoro, nelle scuole, negli asili, negli ospedali. Al più possono incontrare difficoltà in quanto stranieri ma non in quanto musulmani. Al contrario di molti paesi islamici, ove, per inciso, i lavoratori stranieri sono più che maltrattati, in cui il cristianesimo, l’ebraismo e l’intero occidente vengono spesso ferocemente denigrati anche nei testi scolastici per i bambini.
Più semplicemente molti, sia cristiani sia laici, giudicano molto negativamente la religione islamica, e questa è una facoltà di giudizio e un diritto di critica garantiti a tutti dai tempi dell’Illuminismo. Si augurano che le violenze che alcuni seguaci del Corano tengono a mostrarci tutti i giorni via Internet e televisione non si propaghino al nostro paese e siano prevenute da chi ha ne ha il compito nell’ambito delle leggi, democratiche, che ci siamo dati. E questo è l’auspicio, legittimo, di tutti o quasi, certo non una “fobia” parola che tra l’altro evoca una malattia psichica. E, per fare un esempio concreto che si riferisce a uno dei dibattiti in corso nell’estate scorsa, era indubbiamente sbagliato pensare di vietare il burqini e pensare di usare la polizia sulle spiagge per spogliare le bagnanti islamiche. Ciò non toglie tuttavia che chiunque ha il diritto di scrivere e di sostenere in pubblico che paramenti simili sono frutto di una visione del mondo arcaica e medioevale. E chiunque, soprattutto ha il diritto di esprimere che tutte le uniformi simili contengono germi di disprezzo e di razzismo perché comportano implicitamente l’idea radicata che tutti gli altri, bagnanti e non, siano esseri umani pericolosi dai quali è meglio nascondersi. Del resto quando si parla di burqa e di velo integrale si argomenta il loro possibile divieto con la sottomissione e la segregazione di cui sono vittime le donne costrette a portarli.
Questo punto di vista è giusto ma, essendo incompleto, rischia di spuntarsi davanti alla critica dei fautori del velo secondo cui molte donne scelgono liberamente di portarlo. Il punto di vista deve essere completo e coinvolgere non solo chi porta al vero ma anche chi lo deve sopportare dal di fuori e cioè ciascuno di noi. Anche quando la scelta di barricarsi dietro una cortina di stoffa è più o meno libera, rimane una scelta socialmente non indifferente. Comporta infatti inevitabilmente rifiuto, disprezzo e paura nei confronti di tutti coloro che si incontrano, giudicati diversi e ostili: razzismo di matrice religiosa quindi, non c’è altro nome per chiamarlo, e anche per questo motivo e non solo per combattere la sottomissione delle donne il velo deve essere bandito dai luoghi pubblici. Dire tutto questo non è islamofobia ma semplice esercizio del diritto alla libertà di pensiero e del diritto di critica cui l’islamismo, come qualsiasi altra credenza, non può avere il privilegio di sottrarsi. L’islamofobia è un pretesto che serve solo a giustificare il proprio risentimento, le convulsioni del proprio mondo e spesso il fallimento del proprio sistema culturale. Il filosofo del linguaggio Ludwig Wittgenstein scriveva che la più grande violenza che si può fare è quella attraverso le parole, snaturandole e creando con esse incantesimi. E una di queste parole usata per fare violenza alle cose è appunto islamofobia. Non dobbiamo cadere in questo tranello.
L’autore è magistrato del Tribunale di Milano