Il non-pensiero della crisi

Antonio Pilati

Da dove nasce la lunga rivolta populista. Se chi ha fatto scorta di brioche (Clinton) “deplora” chi è senza baguette, Trump è inevitabile. Serve una nuova ideologia forte

L’onda elettorale della rivolta anti-establishment, che in Europa va montando da una decina di anni – in concomitanza con la crisi – e che nel mondo anglosassone si è fatta travolgente con la Brexit e il successo di Trump, ha senza dubbio una base economica: sconta i ritorni negativi in occidente della grande espansione mondiale dei mercati (stagnazione e recessione in molte economie, produzioni delocalizzate, posti di lavoro sempre più instabili e precari), la perdita di attività connessa alla crescente efficacia delle piattaforme digitali (disintermediazione, calo competitivo delle imprese nate analogiche rispetto ai concorrenti online, da Uber a Netflix), la disoccupazione in aumento che si concentra per geografia (dagli Stati mediterranei alla Rust Belt) e anagrafe (giovani), gli squilibri derivati dall’arrembante estensione in dimensioni e (soprattutto) risorse della finanza. Tuttavia il nucleo della rivolta elettorale, il suo cuore pulsante, è di ordine culturale: dagli anni 90, quando si dissolve il mondo bipolare e la visione liberale vive un istante di trionfo che crede definitivo (la “fine della storia” di Fukuyama), si consolida un’infrastruttura mentale che riorganizza il pensiero politico dopo il crollo del comunismo (tutta la sinistra, socialdemocrazie in testa, ne è coinvolta) e nel contesto favorevole dello sviluppo mondiale si espande diventando rapidamente pervasiva.

Questo sistema di idee ha un problema drammatico che oggi tutti riconoscono: confligge con l’esperienza quotidiana e i sentimenti profondi di milioni di persone sui due lati dell’Atlantico. Nato come ideologia di sostegno all’espansione globale dei mercati, diventa il punto di riferimento di quelle forze politiche che, con Clinton e Blair, la realizzano in tempi accelerati durante gli anni ’90 e poi, visto il successo nell’immediato, si articola in modo sempre più capillare come schema organico della vita sociale. Il suo asse portante è l’idea della libera circolazione di persone, merci, capitali: non più barriere, confini, spazi riservati, ma una competizione in tendenza parificata e universale. L’ingresso della Cina nella Wto è di fatto incondizionato, il raggio d’azione della finanza – sospinto dalla potenza della rivoluzione digitale – non trova limiti, gli organismi sovranazionali appaiono la forma politica del futuro e gli Stati nazionali solo un residuo ingombrante. E’ una grande accelerazione, produttiva e istituzionale, che però funziona solo nella fase ascendente dell’economia: quando dopo il 2008 arrivano posti di lavoro perduti e crolli, diventa acuta la nostalgia delle rassicurazioni fornite dagli stati. La visione della circolazione illimitata ha un grande fascino – almeno fino alle smentite della crisi: incarna un ideale di libertà, è in sintonia con l’esplosiva crescita del web che in prospettiva connette ogni individuo al resto del mondo e – insieme – ai depositi di sapere accumulati nel tempo e nello spazio, aumenta il potenziale di fare e di conoscere disponibile a ciascuno.

 

Dall’ambito dell’economia l’idea dei confini da abbattere si diffonde nella vita sociale: dove tutto circola senza riserve, non esistono più mondi tutelati da un valore speciale, ogni tema culturale assume pari dignità. Sembra quasi un impulso di emancipazione: le tradizioni che delimitano comportamenti e stabiliscono divieti all’agire sono vissute come barriere reclusive e vengono sostituite dalla visione dei diritti personali in perenne espansione. In entrambi i casi l’individuo cresce nelle sue chance d’azione e si fa misura delle cose: una parità eguale diventa il metro di misura generalizzato e con ciò si comprime il valore – testimoniato dalle storie di vita – della peculiare comunità in cui ognuno dei popoli occidentali è immerso. In questa prospettiva, come sviluppi dalla medesima radice, sono ricompresi temi in apparenza lontani, dall’estensione dei diritti personali (matrimoni gay, eutanasia) alla equiparazione delle culture diffuse nel pianeta in quanto tutte egualmente apprezzabili e benefiche nei loro fondamenti fino alla promozione insistente di forme di eguaglianza redistributiva nell’economia e nella vita sociale. E’ una forma di ingegneria sociale che punta a ridisegnare l’impianto di valori delle società occidentali, a reimpostarne le regole di convivenza secondo una visione cosmopolita. Norme cogenti orientano con vincoli sempre più stretti le azioni collettive riducendo il campo della strategia politica e della creatività individuale e alla fine l’astrazione giuridica è mitizzata come fonte e strumento di emancipazione. Chi ha meno risorse per apprezzare i vantaggi dell’assenza di frontiere e del mescolamento di esperienze vive tutto ciò come uno shock che lascia indifesi. Ideologia delle élite e sentimenti di popolo si divaricano. Con il passaggio del millennio, quanto più la globalizzazione si consolida tanto più l’ideologia dei diritti e della libertà di circolazione che l’accompagna diventa pervasiva, corrosiva: più campi d’azione regolati, maggiori pretese prescrittive, più forza d’urto contro tradizioni (in tema soprattutto di famiglia, corpo e coppia) che modellano l’esistenza individuale o stili di vita sanzionati come obsoleti.

In questa evoluzione la sinistra, che ha perso antiche certezze, trova nuova vitalità: da Al Gore a Veltroni fino a Obama, estende compatta e radicalizza lo schema ideale avviato da Clinton e Blair. In tempo di crisi ciò accentua le divisioni nella società e per di più snatura i caratteri di un pensiero nato per sostenere e guidare una grande rivoluzione della tecnologia (l’avvento del digitale) e dell’economia (i mercati globali). In passato le rivoluzioni industriali, tanto la prima quanto la seconda (ultimo quarto del XIX secolo), sono state introdotte da sistemi di idee (l’illuminismo francese e scozzese; positivismo e pragmatismo) che rompevano schemi di pensiero collaudati dando prospettiva strategica e retroterra sociale alle innovazioni in corso; l’ideologia prescrittiva e perfettista che oggi si correla alla rivoluzione digitale ne comprime invece la portata espansiva: divide i suoi artefici (Silicon Valley non apprezza l’ingombrante espansione delle astrazioni giuridiche) e la mette in contrasto con una vasta quota di popolazione. E’ questo il punto drammatico: negli anni della crisi, che da economica si è fatta anche politica, le smentite empiriche all’ideologia prevalente sono state frequenti e brucianti. L’irruzione del fanatismo terrorista nella vita quotidiana pone la questione della differenza (irriducibile?) fra le civiltà e nega che siano tutte, al fondo, paritarie e benefiche. Le frontiere, che sarebbero dovute cadere in tempi rapidi con beneficio di tutti, sono riscoperte su larga scala come uno strumento utile: i numeri sempre più grandi dei migranti mostrano i rischi – non avvertiti e non gestiti – dell’illimitata circolazione delle persone; gli squilibri della finanza dicono la stessa cosa per la circolazione dei capitali.

Gli organismi sovranazionali, dalla Ue all’Unesco, patiscono crisi severe, forse esistenziali, e gli stati nazionali – fuori dall’occidente, soprattutto in Asia – rivelano una potente vitalità. L’ideologia dei diritti, dominante nelle università e tra chi vive una dimensione cosmopolita, diverge ormai stabilmente dal senso comune della popolazione lontana dalle reti globali. Se l’una accentua la propria forza assertiva e l’altro è sostenuto da smentite empiriche che toccano la stessa vita quotidiana, si crea nella società una frattura che in tempi brevi trova sbocco politico. Quando i pronipoti di Maria Antonietta, che hanno messo da parte abbondanti scorte di brioche, non temono di fare la morale ai “deplorables” (Clinton) o ai “sans dents” (Hollande) che faticano a procurarsi la baguette quotidiana, allora Brexit e Trump sono inevitabili. Vale la pena di notare che il cambio di rotta si è realizzato in nazioni che amano e tutelano la propria sovranità – non hanno cioè grandi pegni da pagare a vincoli sovranazionali. In Europa, dove la sovranità è frammentata, ostacoli e attriti opposti dallo stato di cose esistente rendono molto più difficile dare risposte al rifiuto che circola nella vita sociale. In Italia la situazione è ancora più complessa: lo stato è in una profonda crisi, sia di funzionamento sia anche di design costituzionale, la sovranità di conseguenza fatica a esercitarsi e un cambio di rotta, non trovando un campo effettivo dove applicarsi, appare difficile. Ciò richiede alla politica, che alla fine è il solo antidoto alla disgregazione, uno sforzo intenso di intelligenza e responsabilità.

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