L'errore “democratico” di aver dimenticato che l'islam è un vuoto politico
Non solo guerra di religione. Sono gli stati che non ci sono
"Ricordatevi di Aleppo", il grido dell’assassino dell’ambasciatore russo Andrey Karlov. Non ha gridato “Allahu akbar” il camionista di Berlino poi ucciso a Milano (lì ha gridato, pare): i tir lanciati fanno troppo baccano. Ma non c’è da fraintendere sulla natura del gesto. I due fatti si tengono, ma come si tengono le cose che sono distinte. L’Europa dovrebbe rifletterci, perché l’intelligenza è distinzione. Adriano Sofri ha scritto mercoledì un articolo notevole. Sul paragone tra Sarajevo 1914 e Ankara 2016; sulle scintille che incendiano la prateria soltanto se è già secca di suo; sugli apprendisti incendiari. “La guerra mediorientale che è scoppiata da anni si è tirata dentro sempre da più vicino alcune delle lontane potenze mondiali”, ha scritto. Non basterà una pace vecchio stile tra stati per chiuderla. (Forse una nuova Yalta? Difficile tra Putin e Trump).
Che una guerra di religione sia in corso, tra l’islam (radicale) e l’occidente (post cristiano-neo pagano) è il dato evidente, cioè in vista. Si può puntualizzare che sia guerra tra gente che crede in Allah e gente che non crede in nessun Dio (preferisco di gran lunga i secondi, e non credo a una sillaba di chi alza scudi cristianisti in difesa dei valori cristiani, ma è opinione puramente personale). Però la sostanza non cambia: una parte della lotta di sopravvivenza sarà da condurre contro i fedeli di quel Dio. Sui metodi, si può discutere. Ma il grido di Ankara, che porta in sé una parte di quella guerra religiosa, ha un’altra parte altrettanto evidente, seppure invisibile perché le im-potenze occidentali hanno preferito a lungo nasconderla. Il conflitto mediorientale pan-islamico che sta entrando come un tir nei nostri confini è un conflitto di natura politica (ormai coinvolge tre imperi e molti stati), che ha molte rocciose cause di lunga data, nervature ideologico-religiose, e qualche pistolettata di Sarajevo che le ha fatte scoppiare. Dal punto di vista occidentale, una delle pistolettate fatali è stata l’illusione che scalzando il vecchio (condannabile e ingombrante) sistema di poteri degli stati arabi ne potesse seguire una fioritura democratica, e non il passaggio da dittature laico-militari a dittature teocratiche, o a un liberi tutti per il jihadismo.
E’ l’errore di valutazione che è stato fatto con le primavere arabe – Assad, Gheddafi, Mubarak. Ma è la stessa sopravvalutazione ideologica implicita nelle campagne di esportazione della democrazia bush-blairiane. Rifletterci su questo giornale, che ha sostenuto a spada tratta e sostiene la bontà di quell’approccio, non vuole essere un autodafè maramaldo. Ma la storia nel frattempo è cambiata, da un pezzo, la prospettiva trumpiana-putiniana ci parla di un altro mondo. Il quale costringe a riflettere – tenendosi a distanza dal cinismo di una vecchia volpe stalinista che usava dire “non vorrei morire senza aver visto un’altra bella guerra nei Balcani” – su due fatti. Aver pensato a un indolore passaggio dalle dittature sultaniche alla democrazia, è stata una sottovalutazione dell’inconsistenza delle società islamiche. Che non è solo mancata distinzione tra stato e religione. La componente religiosa del conflitto era già presente dalle Torri Gemelle, ma il fallimento dei tentativi democratici successivi, che ha condotto fino al Bataclan a Rouen e a Berlino, ci ha indotti a ritenere che l’unico conflitto da combattere sia religioso. Questo fa perdere di vista il “ricordatevi di Aleppo”: la natura politica. E l’evidenza che il nemico da battere è – anche – l’islam politico: inteso come mancanza di concezione laica dello stato e come impossibilità, almeno in tempi non biblici, all’organizzazione democratica. I paesi musulmani che storicamente hanno trovato un equilibrio, l’hanno fatto sotto un tallone militare: la Turchia kemalista, l’Indonesia. Il nemico da combattere non è solo religioso, è il vuoto di un sistema politico mai nato e che alcune scelte hanno contribuito ad allargare. Fino ai nostri confini.