Un altro canto di Natale
Le pecore smarrite, l’inverno e i silenzi del grande nord: nel viaggio del “Pastore d’Islanda” la bellezza disincantata dell’apologo. Da leggere in queste notti
"Anche se tutto ghiaccia, se si rapprendono le pietre e l’acqua, se l’aria gela e cade giù in fiocchi bianchi e si posa come un velo nuziale, come un sudario sulla terra, anche se il fiato gela sulle labbra e la speranza nel cuore, e nella morte il sangue nelle vene – sempre, nel centro della terra, vive il fuoco”. Queste sono alcune tra le più emblematiche e incisive parole pronunciate da Benedikt, il “pastore d’Islanda” protagonista dell’omonimo romanzo di Gunnar Gunnarsson, uno dei massimi autori islandesi, più volte candidato al Nobel, nato nel 1889 da una famiglia di poveri contadini e cresciuto in un piccolo villaggio nei pressi del Vatnajökull, il più grande ghiacciaio del suo paese. Benedikt è un uomo che in dicembre vaga per gli altipiani desertici dell’entroterra islandese insieme a un cane di nome Léo e un montone di nome Roccia, in cerca di alcune pecore da trarre in salvo. Viene colto dal maltempo ma alla fine riesce a tornare a casa vivo. Di questo, in estrema sintesi, parla il breve romanzo edito già nel lontano 1936 in Germania da Reclam Verlag (Lipsia), ma pubblicato per la prima volta in Italia soltanto in questi giorni per i tipi di Iperborea (traduzione di Maria Valeria D’Avino). In prima battuta si potrebbe dire che “Il pastore d’Islanda” narri la vicenda di un uomo di fronte alla potenza della natura, un romanzo quindi perfettamente collocabile nel filone letterario dedicato alla lotta ancestrale tra l’uomo e le forze incontrollabili presenti in un ambiente selvaggio, con tutta l’epica avventurosa che ne consegue, temi ben rappresentati in moltissimi classici della letteratura mondiale, tra cui le opere di Melville, London, Conrad, Hemingway, solo per citare i più noti (secondo più di qualcuno, tra l’altro, proprio da “Il pastore d’Islanda” Hemingway trasse ispirazione per scrivere “Il vecchio e il mare”).
Eppure questa eventuale collocazione di genere, pur possibile, non basterebbe. Non sarebbe a mio modo di vedere sufficiente rispettosa nei riguardi di quest’opera. Qui c’è dell’altro, poiché l’umile racconto del vecchio e barbuto Benedikt e dei suoi due fedeli compagni animali impegnati in un durissimo viaggio tra le montagne islandesi, cela in realtà qualcosa di ben più intimo e profondamente spirituale, “[…] Perché non poteva essere volontà del Creatore di abbandonare al proprio destino quelle povere bestie che sfuggivano ai grandi raduni autunnali e si perdevano sulle montagne. Erano solo pecore, certo, ma pur sempre creature vive di carne e sangue; carne, sangue e anima”. Un gioiello poetico, una sublime parabola qabbalista. Un vero e proprio canto verso il Natale. Ecco cos’è questo libro. Ma vi è ben di più. Il giorno dell’anno nel quale il protagonista, Léo e Roccia (la Santa Trinità, come li chiamano in paese) partono da casa per iniziare il loro viaggio non è un qualunque giorno di dicembre, bensì la prima domenica d’Avvento. Ed è proprio a partire da tale irrinunciabile considerazione che va letto questo piccolo romanzo, la cui disincantata bellezza sta tutta in quella che è la sua vera essenza, quella cioè del racconto morale, dell’apologo: nobile e classico genere letterario tanto desueto editorialmente quanto in verità urgente nell’attualità di ogni tempo. La parola avvento significa “attesa”, ma ancor più precisamente “venuta”, dal latino adventus. “L’Avvento! Sì… Benedikt pronunciò con cautela quella parola grande, mite, così esotica e al tempo stesso familiare. Forse, per Benedikt, la più familiare di tutte.
“Era piacevole camminare lassù. Le cime innevate sembravano molto più basse e lontane”
Certo, non sapeva di preciso che cosa significasse, ma c’era in ogni caso l’attesa, la speranza, la preparazione – questo lo capiva. Negli anni quella parola era arrivata a racchiudere tutta la sua vita. Perché cos’era la sua vita, la vita degli uomini sulla terra, se non un servizio imperfetto che tuttavia è sostenuto dall’attesa, dalla speranza, dalla preparazione?”. Benedikt ha iniziato a fare questo suo annuale pellegrinaggio quando aveva ventisette anni, nel frattempo ne ha compiuti altri ventisette e dunque ora si appresta a compiere il suo ventisettesimo viaggio tra le montagne innevate per salvare degli esseri viventi rimasti accidentalmente lassù, divenendo di fatto il loro salvatore. Tra mille difficoltà e pericoli, incamminandosi incessantemente in una missione che è la cifra stessa della sua esistenza e che, col favore del clima e dei cieli notturni islandesi, sembra svolgersi in uno scenario senza tempo: “E mentre andavano, una notte era sparita a occidente e un’altra li raggiunse da oriente. Il giorno era così breve che l’avevano attraversato a piedi tra i monti quasi senza notarlo. Un’altra notte si chiuse su di loro mentre procedevano quasi senza parlare, nel vento che continuava a soffiare con forza”. E non ha importanza quante pecore possano esservi lassù e a chi esse appartengano. Lui sente su di sé la chiamata al dovere di recuperarle per salvare loro la vita, compiendo un gesto di amore gratuito e fine a se stesso, un rito di emendazione, di riconciliazione col mondo e con la sua esistenza.
Ventisette volte egli ha attraversato la regione di fattoria in fattoria compiendo un rito sacro e irrinunciabile, un viaggio per tentare di ritrovarsi, stare da solo e contemplare allo stesso tempo il creato e la propria coscienza. Ciò che è fuori e ciò che è dentro di sé. E nel libro noi seguiamo passo dopo passo, fatica dopo fatica, inciampo dopo inciampo, questo suo ventisettesimo viaggio. Ventisette come il numero delle lettere dell’alfabeto ebraico, mi verrebbe da dire. E più aumentano le insidie, l’intensità della bufera e della tempesta di neve e gelo che lo fiaccano e gli ostacolano il cammino, più i suoi piedi pesanti incedono verso una meta certa (pur con varie soste, anche di giorni, riparato in rifugi sicuri e nascosti tra la neve, sepolti nella terra e nel ghiaccio), una meta che a ben pensare altro non è che il viaggio stesso, quel pellegrinaggio ineluttabile durante il quale la dimensione contemplativa e il silenzio liturgico di Benedikt si fanno inscalfibili, così come la solidale fratellanza con la coppia dei suoi inseparabili amici, senza il cui aiuto egli nulla potrebbe. La vera quiete dell’anima, ecco qual è veramente l’obiettivo dell’andare di questo umile pastore islandese, la quiete nella tempesta, quello stato di agognata pace e serenità interiore cui tutti ambiamo, desiderosi consapevolmente o meno di una felicità eterna: “[…] Voleva riposare, aveva solo bisogno di solitudine, di riposo, per ritrovare le forze e prepararsi alla solitudine completa, anche dentro di sé. L’Avvento…”.
Benedikt possiede poco, quasi nulla, e per compiere ogni anno questo suo viaggio che anticipa il Natale, egli rinuncia anche a quel poco. La sua è l’esperienza dell’uomo illuminato, del monaco laico che ritrova se stesso e Dio agendo per umile sottrazione, optando per un rituale che ha il sapore della purificazione, rinunciando a ogni orpello quotidiano, a ogni cosa superficiale che accompagna le nostre esistenze e la nostra quotidianità, rinunciando a ogni artificio e a ogni comodità, per dedicarsi piuttosto alla ricerca del luogo ideale in fondo al quale sono “sepolti i suoi sogni. Quei sogni. Quelli che solo lui e Dio conoscevano. E le montagne, a cui li aveva urlati nella sua disperazione. Ma già al primo viaggio li aveva lasciati lassù. Ben nascosti […]. L’uomo si aggrappa alle sue cose, si aggrappa a se stesso e alle sue cose al di là della morte, teme che la vita gli sfugga tra le mani – è questa la più reale di tutte le realtà, la più fragile di tutte le fragilità, la più infinita tra le cose infinite. Teme la solitudine, che è la condizione stessa della sua esistenza. Teme di non essere più circondato dal prossimo e forse d’essere dimenticato da Dio”. Ci vuole una forza interiore immensa per fortificarsi nella solitudine, e Benedikt questa forza ce l’ha, e nella forza di questo personaggio si riconosce anche la grande abilità letteraria di Gunnarsson, capace di trascinare il lettore in un vortice di crudo realismo, profuso allo stesso tempo in un costante motivo di spiritualità e speranza ultramondana: “E lì, nella solitudine della notte di luna, gli tornò in mente la festa. L’Avvento, un’eco di note nell’aria, note di campane, ricordi di sole e profumo di fieno appena falciato…”.
Il sogno della festa, il desiderio lontano di pace e quiete, per l’appunto. Un sogno che tuttavia per essere realizzato necessita di tenacia contro ogni avversità, di rettitudine e perseveranza, di disciplina, di determinazione e lucidità contro le paure, le angosce e gli spettri che albergano nell’animo: “[…] Ecco qua! La terra può essere così ostile all’uomo da chiudersi completamente davanti a lui, lasciandolo in balia di se stesso. Ma Benedikt trovò la soluzione. E’ questo il compito dell’uomo, forse l’unico al mondo: trovare una soluzione. Non darsi per vinto. Rivoltarsi contro il pungolo, per quanto sia tagliente, perfino contro quello della morte, fino al giorno in cui gli penetrerà il cuore. Ecco il compito dell’uomo”. Infatti scrive Gunnarsson: “Un uomo che si trovi all’aperto in una notte come questa, a molte miglia da una strada e dai suoi simili, solo e abbandonato a se stesso in una landa desolata, in un deserto montano avido di carne umana, deve mantenere il cuore saldo e non offrire il minimo spiraglio agli spiriti della tempesta, la minima crepa in cui possano insinuarsi paura, esitazione, o la follia della natura. Perché la vita e la morte sono lì, sui piatti della bilancia, e quale peserà di più? Solo il coraggio può aiutare, uno spirito intatto e inalterabile. Ignorare il pericolo e andare avanti. E’ semplice”.
E’ così. Infatti al di là del coraggio e della rettitudine, oltre quel confine sottile che separa il momento dell’attesa dal giorno della festa, ci attende una nuova dimensione, quello stato di pace e realizzazione verso il quale l’Avvento di Benedikt chiaramente ci accompagna e ci conduce. Una dimensione universale laddove per ogni cristiano splende la bellezza più rara e preziosa: la santità, raggiunta attraverso l’umile e rituale gesto di un pastore mite e solo in apparenza eroico. “Era piacevole camminare lassù. Le cime innevate sembravano molto più basse e lontane sotto il chiaro di luna, strisce di stelle scintillavano qua e là sul ghiaccio nero e lucido. Quel viaggio era come una poesia, con rime e parole magnifiche che restavano nel sangue. E come una poesia, col tempo si imparava a memoria e poi si sentiva il bisogno di tornare, per accertarsi che nulla fosse cambiato. E così era: tutto era ancora estraneo e inaccessibile, eppure familiare e inevitabile. Benedikt si sentì invadere da una pace assoluta. Una fiducia sgorgata dal profondo si diffondeva in lui, totale e infallibile: lì camminava. Camminava lì”. Per il sapiente pastore islandese la forza che fa crescere e accompagna la nostra vita è l’abnegazione, e una vita che non è sacrificio nel suo nucleo più profondo è arrogante e sacrilega e non conduce alla salvezza, bensì alla morte. E non è appunto questo il mistero dell’esistenza?