La modernità del pensiero politico di Aldo Moro nei suoi scritti giovanili
“La vanità della forza”, articoli scritti tra il 1943 e il 1945, mostrano i segni di un futuro politico di primo piano ma soprattutto la testimonianza d'una mente attenta nella situazione magmatica del Regno del sud
Gli scritti giovanili di Aldo Moro, apparsi negli ultimi anni di guerra sulla Rassegna, un periodico barese, possono indurre a due ordini di considerazioni. Si possono cercare in questi testi, scritti dal giovane docente universitario che già aveva svolto la funzione di responsabile nazionale degli universitari cattolici prima dell’inizio delle ostilità, i segni premonitori di una futura esperienza politica di primo piano, e su questo si appuntano alcuni dei saggi introduttivi. Questo filone, però, apparentemente assai promettente, in realtà non produce un granché, se non una precoce tendenza a esaltare le virtù della prudenza, una preferenza per fare bene piuttosto che in fretta oltre all’ovvio prevalere dell’ispirazione cristiana. Si trova persino qualche indicazione che può risultare un po’ fuorviante, come quella che allude alla “vanità della forza”, scelta come titolo del volume curato da Lucio D’Ubaldo (Presentazione di Valter Mainetti, Prefazione di Rosina Basso Lobello e Postfazione di Giuseppe Fioroni) per le edizioni Eurilink. In realtà, l’esperienza successiva del Moro politico e statista non è stata affatto disinteressata ai rapporti di forza, il cui calcolo preciso è anzi stato uno degli elementi centrali della sua analisi, soprattutto nei momenti di svolta e di crisi.
L’altro filone, quello che punta a esaminare la testimonianza che viene da una mente attenta e da una persona impegnata nella situazione magmatica e complessa del Regno del sud, invece, risulta più fertile. L’aspetto più interessante è la distanza rivendicata dal giovane Moro dagli antifascisti “dell’Aventino”, cioè da quegli esponenti della generazione prefascista che ritornavano a occupare la scena politica dopo un ventennio, dando l’impressione di voler proseguire una battaglia definita nei suoi termini essenziali nella situazione degli anni Venti. Com’è noto, il principale esponente in ambito cattolico di questa tendenza post-aventiniana fu proprio Alcide De Gasperi, anche se probabilmente la polemica di Moro era rivolta a esponenti assai meno importanti del popolarismo barese (che peraltro lo avevano escluso in un primo tempo per una presunta tendenza filo-monarchica). L’antifascismo, inteso come sistema chiuso dominato da una specie di nomenclatura prebellica, viene considerato da Moro come una nuova forma speculare di fascismo, non in base a quelle comode equiparazioni che sarebbero poi diventate il terreno di propaganda dell’Uomo qualunque, ma per una richiesta più esigente di rinnovamento, di costruzione di una democrazia basata sulla responsabilità personale.
Non mancano le ingenuità, compreso uno stravagante accenno alla democratizzazione del bolscevismo, che avrebbe dovuto condurre a un avvicinamento tra le ideologia degli alleati nella lotta antifascista, anche se in piena dittatura staliniana di quel processo di democratizzazione non c’era alcun segnale concreto. Solo negli ultimi articoli della Rassegna Moro finisce col convergere, seppure con importanti distinzioni, con l’azione degasperiana, criticando la risorgente “mistica” della sinistra. Parla di un ruolo decisivo delle “destre”, come “temperamento di tatto, di prudenza, di misura, di chiarezza. Di chiarezza soprattutto”. Particolarmente interessante, anche per la situazione attuale, appare la costante distinzione operata da Moro tra “massa e popolo”, sulla scorta di una osservazione di Pio XII, ma con tratti di analisi originali: l’obiettivo di “trasformare la massa in popolo” viene affrontato con qualche compiacenza didattica, ma identifica un problema di diffusione della responsabilità come espressione della libertà che sarà uno degli elementi permanenti del pensiero moroteo e, più in generale, una prova mai del tutto superata della democrazia italiana.