Il mondo grullo del “buongiorno vuol dire buongiorno” di Severgnini e la differenza tra emoji e punteggiatura
Non poteva che toccare a lui di commentare la trascurabile notizia che l’emoji più usato nel mondo è quello che sorride
Probabilmente è colpa del fatto che la nostra capacità comunicativa, dopo essersi ristretta al canone dei 140 caratteri, s’è dilatata, come i sospiri del cuore, a quel paio di centinaia di emozioni che si chiamano emoji, o si chiamano emoticon (ci sarebbe da farne distinzione saussuriana, evitiamo). Ma è molto più probabile che la colpa sia dell’eterno ritorno dell’identico, di quella banalità cordiale e ottimista e italica che costringe a ripetere la sciocchezza di Zavattini, “non so voi, ma io sogno un paese dove buongiorno vuol dire buongiorno”. Cosicché non può capitare a nessun altro se non a Beppe Severgnini (è il gorgo dall’arcitalianità al siamo tutti italians), di dover commentare la trascurabile notizia che l’emoji più usato nel mondo è quello che sorride (anzi ride con le lacrime agli occhi). Seguito dal cuoricino. E di dover dire, incauto: “Il mondo, quando comunica, sorride”. Va bene che ci sono i jihadisti che invece fanno il dito medio alle telecamere di sorveglianza, ma, siccome siamo fatti della materia dei sogni, perché mai l’emoji più diffuso al mondo dovrebbe essere quello che dice “vaffanculo”?
Dalla pagina del Corriere in cui si dà conto di uno studio dell’University of Michigan e dell’Università di Pechino, si evincono due formidabili nozioni linguistico-cognitive, di quelle che il buon Tullio De Mauro sarà contento di aver schivato di sapere, seppure d’un giorno. Una, che le persone quando comunicano tra loro sono mediamente contente di farlo – anche perché di solito si comunica con gli account sulla propria agenda, o con chi si ama, insomma D’Alema non manda emoji a Renzi. Due, che il nostro bagaglio lessicale si va vieppiù riducendo a un pugno di geroglifici emozionali. L’emoticon che indica “ironia della sorte” forse non c’è, e questo spiega la differenza e superiorità del pensiero ideogrammatico su quello sintetico da tastiera. Ma chi avesse avuto la ventura o il buon cuore (emoticon: heart) di voltare la pagina, si sarebbe trovato davanti un titolo: “Un anno, dieci propositi”, in cui, al numero 4, figura: “Riscopriamo il valore di punti e virgole”.
Leggiamo: “In piena ‘emoticocrazia’, per il 2017 ci auguriamo la ripresa di punti, virgole e due punti. Oltre che il recupero degli appunti a mano, più utili nel processo di creazione delle idee. E molto più eleganti”. Avvertire l’estensore della pagina precedente? Soprattutto. La punteggiatura, scansione razionale della modernità, è quella cosa che serve non per sottolineare le emozioni, ma per separare e operare la distinzione i pensieri, cioè le parole. I “geroglifici moderni” che fanno tanto dolce l’umanità di Severgnini sono invece emozioni, non concetti. Bisognerebbe chiedere a Shigetaka Kurita, l’uomo che inventò gli emoji, ed essendo giapponese ha dimestichezza con quelle strutture di logica e segno che sono gli ideogrammi, se sia possibile inventarne uno per Severgnini che significhi più o meno “ho espresso un pensiero inutile e chiedo venia, non tenerne conto”. O forse basta il vecchio, caro “mela zeta”.