Vietare l'alzata di mano in classe è l'ultima fuffa del politicamente corretto
"Pratica che penalizza i timidi". La scelta di un liceo inglese
E’ notizia di qualche giorno fa che tale Barry Found, principal (preside) del liceo inglese “Samworth Church Academy School” di Mansfield, una cittadina posta a metà strada tra Nottingham e Sheffield, abbia deciso di vietare l’alzata di mano nelle classi durante le lezioni con la seguente motivazione: “Si tratta di una pratica antiquata che non aiuta l’apprendimento degli studenti. Le mani alzate sono sempre le stesse e penalizzano i più timidi.” Una decisione alquanto ingenua, oltremodo paradossale rispetto ai suoi stessi propositi, nonché priva di una ratio didattico-formativa, a mio modesto modo di vedere. E mi spiego. Si può affermare che ogni comunità scolastica rappresenti sommariamente un piccolo spaccato della società nella quale viviamo. Di conseguenza gli individui (studenti) di qualunque scuola del mondo, una volta inseriti in un ambiente che è il gruppo classe, presentano ed esprimono proprie peculiarità caratteriali, culturali, psicologiche e sociali che inevitabilmente ricadono sulla collettività (i loro compagni) in maniera positiva o negativa. Va da sé che tra tutte le categorie comportamentali degli alunni vi siano, molto banalmente, anche quelle per mezzo delle quali distinguiamo chi è portato a nascondere il proprio temperamento non alzando mai la mano e chi invece è portato a manifestare il proprio protagonismo alzandola in continuazione, magari intervenendo a sproposito e soverchiando la timidezza altrui.
Questa rappresentazione semplicistica risulterebbe verosimile e credibile se fosse inerente un modello di scuola e di didattica appartenenti a un tempo ormai molto lontano, quando ancora le lezioni erano esclusivamente frontali e i professori entravano in classe creando nell’aula un clima da interrogatorio degno della Securitate o della Stasi. Il fatto è che le dinamiche all’interno delle classi di liceo (o di istituto secondario di secondo grado) sono cambiate già da un bel po’ di tempo in tutta Europa, e mi pare strano che l’ex “head teacher” del Samworth non se ne sia ancora accorto. Ma l’errore da matita blu che commette questo preside inglese sta nella sottovalutazione totale dell’insegnante e del suo ruolo formativo sempre più orientato alla cultura dell’inclusione e della partecipazione attiva. Questo è il punto vero della faccenda. Nel corso di questi ultimi anni, infatti, chi sta in cattedra ha visto mutare il proprio mestiere in maniera spesso radicale e questi cambiamenti riguardano sia le metodologie sia il ruolo del docente inteso soprattutto nel rapporto dialettico che egli ha con i suoi discenti. L’insegnante di oggi è chiamato a una didattica molto più avanzata rispetto al passato, soprattutto dal punto di vista delle esigenze formative e cognitive dei ragazzi, una didattica integrata da supporti informatici innovativi, metodi di insegnamento differenziati a seconda dell’attività da svolgere, flipped classroom, perseguimento di obiettivi trasversali, cultura dell’ascolto, peer to peer, focus formativo incentrato sull’acquisizione di competenze anziché sulle conoscenze e via discorrendo. Insomma, approcci completamente diversi rispetto a quelli della vecchia e pedante lezione frontale tuttora evidentemente ancorata nella testa del preside inglese.
Il professore delle scuole superiori deve certamente possedere i requisiti culturali, le capacità, le conoscenze e le competenze relative alle proprie discipline, ma deve altresì sviluppare determinate capacità psico-attitudinali necessarie a veicolare nel migliore dei modi la trasmissione di competenze e valori. E a tale scopo egli ha la necessità di saper proporre e instaurare una capacità relazionale ed empatica tra studente e studente. Un dialogo che sovente si presenta nella forma di ragionamento maieutico e domanda-risposta collettivi (brain storming), condotti con atteggiamenti e prospettive diverse rispetto al passato, quando appunto il professore faceva una domanda e i soliti secchioni coraggiosi alzavano la mano. Alla luce di quanto detto, è naturale quindi che sta principalmente nelle skills del docente saper gestire tale rapporto dialettico prendendosi la responsabilità di gestire e coadiuvare il gruppo favorendo i rapporti tra ragazzi in modo tale da insegnare ad alcuni il rispetto degli altri e ad altri la responsabilità delle proprie idee. E’ il docente che con la sua supervisione, il coordinamento e la sua autorevolezza culturale ed educativa, deve essere in grado di guidare gli interventi da parte degli studenti, evitando prevaricazioni dei soggetti più esuberanti e favorendo la partecipazione dei più introversi, insegnando loro come e quando si alza la mano, e non certamente vietandolo.
Insomma, come il paziente con la gamba fratturata che accusa l’ortopedico, Mr. Barry Found se la prende con l’alzata di mano nelle classi senza capire che il nocciolo della questione riguarda la capacità del docente di saper gestire le relazioni verticali e orizzontali, vale a dire i rapporti con e tra gli alunni. Per questi motivi sono assolutamente convinto che imparare ad alzare la mano in classe sia ancora utile e necessario e sono altresì convinto che lo sarà sempre, poiché farlo insegna (contrariamente a quanto pensa Found) proprio a non prevaricare sugli altri e ad esprimersi apertamente, magari proferendo pareri diversi o contrari. Alzare la mano insegna ad aspettare il proprio turno, a gestire gli istinti e a pensare bene ciò che si vuol dire. Alzare la mano è un atto di responsabilizzazione, un modo per imparare a rispettare gli altri, le regole e il senso di appartenenza a una comunità. Alzando la mano in classe, quindi, si impara la democrazia. Il resto è fuffa politicamente corretta.
Universalismo individualistico