Le idee non tutte liquidabili di un sociologo sul declino occidentale
Zygmunt Bauman (Poznan, 1925 - Leeds, 2017)
Gli sbuffi di zazzera candida e gli sbuffi della pipa hanno contribuito a socializzare di lui l’immagine banale del vecchio saggio, uno degli ultimi interpreti novecenteschi della “decadenza degli intellettuali”, che è il titolo di uno dei suoi libri più importanti, trent’anni fa, che Bollati Boringhieri con intelligenza ripescò, con senso dell’attualità, nel 2007. Ma per lui la decadenza degli intellettuali non era il sopracciò uggioso verso l’universo mondo, la chiave di volta per proclamarsi maître à penser dentro una società senza più maestri. Il titolo originale del libro era “Legislators and Interpreters. On Modernity, Post-Modernity and Intellectuals” (1987), e la parola “intellettuale” in Zygmunt Bauman indicava il ruolo – legittimato dal potere politico moderno – di una classe incaricata di dare al mondo una ben strutturata visione della società. Ruolo ambiguo, ma dopo la fine dei chierici e del potere fondato sulle religioni un ruolo fondamentale, non sempre negativo. Oggi che si parla tanto di post verità, della scomparsa di qualsiasi gerarchia del sapere e dei valori, persi in una ridda soltanto interpretativa, nei mille rivoli di conoscenze di cui non si riesce spesso a individuare la fonte, riconsiderare la sua “decadenza degli intellettuali” potrebbe essere un utile esercizio di lettura.
Questo ebreo di Poznan (era nato nel 1925), che aveva schivato la Shoah perché la famiglia era riparata nella zona di occupazione sovietica, che era dunque cresciuto comunista e formato nella sociologia sovietica, ha vissuto molti dei destini dell’intellettuale ebreo del secolo breve europeo. Compreso l’andarsene dall’Urss nella stagione antisemita di fine anni 60, compreso emigrare a Tel Aviv, compreso andarsene (a Leeds) qualche anno dopo. Compresi alcuni giudizi quantomeno critici, o ingenerosi, in anni recenti, verso Israele. Ma soprattutto, aveva vissuto la disillusione dell’ideologia del progresso. E la visione un po’ frastornata di quel che accadeva. Una lettura che lo portò dagli anni 90 a interrogarsi sul “malcontento della postmodernità”, sulle “conseguenze della globalizzazione sule persone”, per approdare infine alla celebre sintesi, che diventerà un claim internazionale, della “modernità liquida”, la “società liquida”. Ovvero la fotografia, nel complesso realistica, della società economicamente evoluta della globalizzazione liberista, con la sua strutturale perdita dei legami, del senso comunitario, di una decomposizione sociale. Elementi che lui certo leggeva in chiave non ottimista.
Poi, certo, la “società liquida” era diventata per il discorso corrente progressista, orfano di ogni altra chiave di lettura, e per le chattering classes, l’ultimo rifugio intellettuale delle canaglie, l’ultimo argine di critica al trionfo del neoliberismo. Da lì a trasformarlo in ospite fisso delle pensose pagine dei giornaloni di sinistra, giù giù fino agli immigrati e alle terre desolate, è stato un gioco scontato. C’è da dire però che non era stato lui a inventare il fenomeno. Lui l’aveva letto, tra i primi. Poi, quel “liquida”, nelle cattive trasposizioni non autorizzate italiane, per qualcuno era diventato addirittura “fluida”, con aggiornate strizzate d’occhio alla fluidità dei corpi e alle teorie genderiste. Anche se lui, parlando degli “usi postmoderni del sesso” (2013) non era proprio convinto che andasse tutto così bene. E’ morto ieri a Leeds.