Fake news (e spin) ci sono da sempre. Appunti non censori per combatterli
Serve potenziare la “moderazione sociale”, cioè incrementare le segnalazioni di fake proposte dagli utenti può essere un inizio ma si presta ad abusi alla libertà di espressione
Come hanno ricordato sul Foglio Carnevale Maffè e Giovanni Maddalena le notizie false sono sempre esistite. Per chi fa comunicazione politica il confronto con le bugie (o ritenute tali dal proprio punto di vista) è parte del lavoro quotidiano. Per fare solo un esempio, nell’aprile del 2004 lanciai per Forza Italia il sito tematico “Caccia alle bufale online”, per smentire le false notizie riguardanti il governo Berlusconi pubblicate nel web e veicolate anche tramite catene di email. Conobbi in quella occasione il lavoro di Paolo Attivissimo, che da oramai quasi tredici anni smaschera le bufale online e che assieme a David Puente ha svolto una pregevole inchiesta per scoprire chi c’è dietro e come funzionano i siti di fake news di maggior successo. La questione è certamente rilevante.
Tuttavia l’andamento del dibattito mi ha convinto che il tema non sarebbe diventato di “vitale importanza” per l’assetto democratico globale se la Clinton avesse vinto le elezioni e Renzi il referendum. Poiché hanno perso le elezioni quelli che le “dovevano” vincere e che, guarda caso, controllano in larga parte la comunicazione, fake istituzionali compresi, ora diventa urgente regolamentare la verità sulla rete. In realtà, i rappresentanti dell’establishment di governo non hanno perso a causa di qualche sito spara-bufale ma perché incapaci di dare risposte alle paure e alle domande di sicurezza sociale ed economica espresse da larga parte dei cittadini. Domande peraltro da essi giudicate sbagliate, non politicamente corrette, indegne di cittadinanza nel dibattito pubblico. In un arguto tweet, il vicedirettore del Tg1 Gennaro Sangiuliano si chiede “non ho capito se si vogliono bloccare le ‘bufale’ in rete o le ‘verità negate’ quei fatti che la dittatura del politicamente corretto nega”. E’ più comodo trovare un capro espiatorio della sconfitta nei siti fake che fare una seria autocritica. Il dibattito attuale mi riporta a quando, dopo aver perso le elezioni europee 1999, la sinistra si rifugiò nella comoda scappatoia di pensare che avessimo vinto perché avevamo usato gli spot.
Così il governo D’Alema nel febbraio 2000 approvò una legge (tuttora in vigore) per impedire di usare gli spot tv e radio. Com’è noto, persero rovinosamente sia le regionali 2000 che le elezioni politiche 2001. Non avevano perso per gli spot ieri, non hanno perso oggi per le fake news. Come cerco di argomentare nel mio libro “Internet e comunicazione politica”, la questione centrale è che la realtà (sociale, politica, economica) viene sempre prima della comunicazione e determina buona parte del contesto e dell’esito delle vicende elettorali. Nel caso in questione ciò significa anche che il problema delle false notizie non riguarda solo il web o i social network, fatelo capire per favore al ministro Orlando. Il tema della verità dell’informazione è antico come il mondo. Se dovessimo oscurare ogni fonte di bufale, allora si dovrebbero oscurare i grandi siti per manifesta manipolazione della realtà, come scrive Marcello Foa in un suo recente post a proposito di come si manipola l’informazione, tra spin doctor istituzionali e testate informative “ufficiali”. Su questo aspetto si fonda la premessa di ciò che ha detto Grillo.
La sua idea della giuria popolare per decidere quali notizie siano vere non è una proposta ma la butta, come al solito, in caciara. Lancia la solita fake notizia e ottiene gratis visibilità per sé e guadagni non solo politici per il suo blog. Allo stesso modo è irricevibile la proposta del presidente antitrust Pitruzzella. Non ne discuto la buona fede ma è evidente il rischio di cadere in forme di censura se è una agenzia pubblica, nominata da chi è al potere, a decidere che cosa è verità oppure no o a distinguere i confini tra satira e menzogna. Che fare, allora? In primo luogo i media istituzionali smettano di dare rilevanza alle bufale, rilanciandole nei propri siti, seppur con lo scopo di denunciarle. Se un sito fake come newsitalia24.com fa 120.000 visitatori al mese (fonte Agi, inchiesta di Matteo Flora e Arcangelo Rociola) cioè solo 4.000 al giorno, che audience raggiungerà se repubblica.it ne rilancia i post? In secondo luogo, le fake news si combattono con buoni contenuti ed educazione all’uso del web. Dice bene il giornalista e blogger Fabio Chiusi nel suo post per valigiablu.it: “Quando c’è bad speech, insegnano piuttosto gli anglosassoni, si combatte con more speech. Manipolazione, propaganda, bugie, falsità costruite ad arte si contrastano con logica e spirito critico, argomenti e dati”.
E’ una strada lunga, lo so. E parte innanzitutto dai comportamenti personali: ma anche nel web la moneta cattiva si scaccia mettendo in circolazione moneta buona. A questo riguardo non mi sfugge quanto evidenziato dalla ricerche di Walter Quattrociocchi sul fatto che il debunking, “il confutare le false informazioni attraverso il fact checking” sia inutile “per ristabilire una coscienza corretta dei fatti”. Ma solo una presenza può sperare di contrastare un’altra presenza. In terzo luogo, se si ritiene che una balla sia un reato, allora la si persegua usando le leggi che già ci sono, anche per intervenire su siti aventi sede all’estero, cosa fattibile, specie se si è una istituzione pubblica e dunque si ha potere a sufficienza. Rimane il tema del ruolo dei big player del digitale: semplici vettori neutri oppure super media companies? Non ho una risposta ma una provocatoria considerazione. Google e Facebook sono aziende private che svolgono un servizio pubblico, nel senso del principio di sussidiarietà: pubblico è il servizio, non necessariamente chi lo eroga. Se così è, allora queste aziende sono chiamate a un di più di responsabilità. Come praticarla è il problema: potenziare la “moderazione sociale”, cioè incrementare le segnalazioni di fake proposte dagli utenti può essere un inizio ma si presta ad abusi alla libertà di espressione.
Limare gli algoritmi, anche. Forse a questa questione, come direbbe un premio Nobel per la letteratura, “risposta non c’è”. Vale però la pena di cercarla, tutti insieme, consapevoli che poiché nella vita il grano e la zizzania cresceranno sempre insieme. Lavoro alle campagne elettorali di Berlusconi dal 1993 e nel web da fine 1994 e mi sono dovuto confrontare con fake di ogni tipo. È impossibile (e antidemocratico) pensare di impedire la scrittura di bugie per legge. Quando nel 2001 qualcuno tra noi voleva denunciare chi taroccava online la nostra campagna di affissioni, con Berlusconi decidemmo di farne il “Concorso dei manifesti taroccati”. Fu una controcampagna di grande successo. Concludo con un sorriso. E’ davvero ironico vedere come la maggior parte di coloro che si battono per la verità online siano gli stessi che ci dicono da anni che la verità non esiste. Ma questo è tutto un altro tipo di fake…
Antonio Palmieri è deputato di Forza Italia