Trump contro Meryl Streep, il cui unico difetto è non saper scegliere i vestiti
Come se i Golden Globe non fossero abbastanza politicizzati
I Golden Globe – premi assegnati a Los Angeles dalla stampa estera – indicano la strada per gli Oscar (o almeno così si usa dire, tranne quando i vincitori divergono, e allora qualcuno dice che la stampa estera è più sofisticata ed europea della provinciale Hollywood). Ora si apre la competizione tra i festival italiani: chi tra Venezia e Roma indica la strada per i Golden Globe? Alla Mostra di Venezia, in apertura, era “La la land” di Damien Chazelle, vincitore come miglior film della categoria “comedy&musical” (più altri sei globi, sette candidature aveva e sette premi ha portato a casa). Alla Festa di Roma, in apertura, c’era “Moonlight” di Barry Jenkins, vincitore come miglior film drammatico. Si accompagnava “Manchester by The Sea”, che ha fruttato a Casey Affleck il premio come migliore attore in un ruolo drammatico (“melodrammatico” sarebbe più adatto, capirete quando uscirà in sala il 16 febbraio). I Golden Globe distinguono tra dramma e comicità in materia di film, in materia di attori, perfino in materia di serie televisive. Gli Oscar no, quindi la battaglia si preannuncia durissima. E bisogna mettere in conto anche la protesta #oscarsowhite che lamentava nomination troppo bianche: premiare “Moonlight” come miglior film sarebbe un risarcimento per la comunità nera.
Gli asiatici aspetteranno il loro turno, i latini sembrano piuttosto ben piazzati da quando Donald Trump ha minacciato il muro tra Stati Uniti e Messico (il dibattito su chi lo debba pagare, o anticipare i soldi, è già una gag). Anche le attrici sembrano piuttosto ben piazzate per un risarcimento, dopo che il presidente eletto ha detto di non aver visto lo show, di non conoscere personalmente Meryl Streep – premiata con il Golden Globe alla carriera, peccato non sappia mai scegliersi un vestito decente – di considerarla sopravvalutata come attrice, e come donna… (come donna nel tweet c’erano i puntini, fate voi). Va detto che “La la land” (nelle sale italiane il 26 gennaio, finalmente) nella sua categoria non aveva rivali. Invece “Moonlight” ne aveva uno potentissimo – e trascuratissimo, in Italia nessuno si è preso la briga di distribuirlo e lo trovate su Netflix. Nella cinquina dei film drammatici c’era “Hell or High Water” di David Mackenzie: sceneggiatura di Taylor Sheridan da far studiare a scuola, Chris Pine e Jeff Bridges strepitosi. Una storia di banche e di America bianca povera di grandiosa attualità, come sono spesso i film che non fanno proclami ma guardano il mondo con occhio curioso.
Una storia realista, mentre “Moonlight” – con tutti i suoi spacciatori e la mamma drogata e la rivelazione sull’essere gay – ha la struttura della favola. E infatti il Guardian, dopo aver constatato l’uscita del film dalla nicchia cinefila e dalla comunità Lgbt, si chiede quanto abbia contato nella normalizzazione l’amor platonico e l’assenza quasi totale di sesso (forse i giurati della stampa estera non sono sofisticati come vengono dipinti). “The Crown” ha vinto come miglior serie televisiva drammatica, grazie alla bravura sconfinata di Peter Morgan. Un magnifico ritratto della regina Elisabetta, e di tutto quel che le è stato intorno, illuminato dall’attrice Claire Foy, anche lei premiata con il Golden Globe. Attrice drammatica per il cinema, neanche a dirlo, Isabelle Huppert in “Elle” di Paul Verhoeven, tipica scelta da giuria europea. La bellezza singolare e il tip tap dei premiati Emma Stone e Ryan Gosling in “La la land” consolano di tutto.