La missione di un'autrice tra Israele e Berlino contro il terrore
A Berlino Orit Arfa si è fatta notare scrivendo una lettera d’amore alla Germania, invitandola, dopo gli attacchi terroristici dello scorso luglio, a “lasciare il sentiero dell’autodistruzione”
Berlino. Ha deciso di trasferirsi a Berlino dopo la terza visita nella capitale tedesca. La prima, ricorda Orit Arfa, l’aveva compiuta nel 2014 assieme a suo padre, nato a Hannover da ebrei di origine polacca sopravvissuti allo sterminio. “E’ stata la classica gita terrificante di una famiglia ebraica sulle tracce dell’Olocausto, dove ti senti circondato dai fantasmi. Per me Berlino era solo la vecchia capitale del Terzo Reich”. La seconda volta è stato per lavoro: Orit aveva appena finito il suo primo romanzo, The Settler, e stava concludendo la registrazione del cd allegato al libro. “La produzione è avvenuta qui a Berlino”, racconta, ricordando di aver percepito soltanto allora la frenesia culturale e artistica della capitale “povera ma sexy” decantata dal suo ex sindaco Klaus Wowereit. L’ultima volta, un anno fa, per una relazione romantica: “Alla fine non ha funzionato, ma io intanto mi sono innamorata della città”. Ed è rimasta.
A Berlino Orit Arfa si è fatta notare scrivendo una lettera d’amore alla Germania, invitandola, dopo gli attacchi terroristici dello scorso luglio, a “lasciare il sentiero dell’autodistruzione”. Nata a Los Angeles da madre israeliana di origine irachena, Orit è scrittrice, giornalista, saggista, cantante. Nell’immaginario degli israeliani moderni, Berlino non fa solo rima con Shoah ma è anche l’emblema di una vita meno frenetica di quella di casa, dettata dai tempi del servizio militare, dello studio, del lavoro, del faccio almeno tre figli e mi difendo dagli attentati dei nemici. Solo di recente la vecchia Europa ha iniziato a sperimentare il terrore jihadista a teatro, allo stadio, al mercatino di Natale. “E’ stato triste provare gli stessi sentimenti di nuovo, anche qua: ma dopo l’ultima strage col Tir ho raggiunto la piena consapevolezza che non si sfugge al terrore islamico”. Per gli israeliani è sempre stato così. Nel 2000, durante la Seconda Intifada, l’uomo con cui Orit aveva da poco iniziato una relazione muore a Gerusalemme nell’attentato a un ristorante. “Avevamo appena iniziato a conoscerci. Solo dopo la sua morte ho appreso dai giornali che persona profonda e interessante fosse”.
Orit non è ascrivibile agli israeliani che si trasferiscono in Europa dopo ogni vittoria elettorale del premier Benjamin Netanyahu, ma è a Berlino in missione: “Voglio aiutare tedeschi e israeliani a fare i conti con l’Olocausto. Insieme”. Orit è convinta che i tedeschi per primi non abbiano davvero elaborato lo sterminio di cui si sono fatti promotori: “Il passaggio mancante li sta danneggiando”. Il suo messaggio è diretto: “I tedeschi hanno bisogno di sentirsi dire da un’israeliana nipote di sopravvissuti che combattere il terrore va bene, e che se reagisci alla violenza non sei un nazista”. La scrittrice porta le prove della sua analisi definendo la recente apertura delle frontiere ai profughi mediorientali “una reazione emotiva con un occhio al passato”. I tedeschi in sostanza accolgono i rifugiati islamici solo per provare a loro stessi di non essere più nazisti. “E tuttavia”, osserva, “se avessero davvero integrato la lezione dell’Olocausto ci penserebbero due volte prima di lasciare entrare in casa loro tante persone che probabilmente ammirano Hitler”. Un’ammirazione, insiste Orit, molto diffusa nel mondo arabo e pericolosa per la Germania moderna. Oggi i tedeschi convivono con centinaia di migliaia di persone “cresciute in un clima antisemita, con una religione che cozza con le libertà della persona ed è corredata da una propria agenda politica”. Orit riconosce il dovere di aiutare chi è in difficoltà, “ma i tedeschi non hanno effettuato nessun controllo alle frontiere. E’ da irresponsabili”. Poi cita un esempio molto berlinese: “Hanno organizzato un referendum per sapere cosa fare dell’ex aeroporto di Tempelhof, ma su una decisione destinata a cambiare il profilo del paese non hanno nemmeno discusso”.
Orit non ha timore di andare controcorrente. Nel suo The Settler – da declinare al femminile – l’autrice narra la storia di una donna israeliana che, a seguito del piano di disimpegno unilaterale voluto dall’ex premier Ariel Sharon nel 2005, lascia l’insediamento di Gush Katif, nella Striscia di Gaza. Nel romanzo si legge dello stigma che colpisce la protagonista, cresciuta in un mondo nazionalista e religioso, una volta trasferita nella laica e cosmopolita Tel Aviv. La scrittrice non si unisce al tiro al colono tornato di recente in voga anche al Consiglio di sicurezza dell’Onu. “Il movimento anticoloni è sostanzialmente antisemita: vivere sulle colline dell’Israele biblica è un atto di orgoglio e la massima espressione di realizzazione in senso ebraico. Chi odia i coloni odia l’autonomia e la forza di un popolo in grado di prendersi cura di sé”. Orit respinge le etichette politiche e aggiunge che “si può discutere quale forma di governo sia la migliore per quella zona”, ma poiché ritiene che gli arabi abbiano il diritto di vivere in Israele non vede perché gli ebrei non possano vivere oltre la Linea verde.
A Berlino Orit Arfa sta lavorando al suo nuovo romanzo. “Terza generazione” racconta la storia di amore fra una ragazza dell’insediamento di Ariel e un giovane tedesco. Il tema è quello di una riconciliazione vera post sterminio, corredato da quello della complementarità: “Israeliani e tedeschi non potrebbero essere più diversi. E gli opposti si attraggono”. Poi torna sulla sua “missione” in Germania. “Da Heinrich Heine in poi, gli autori ebrei tedeschi hanno sempre avuto la capacità di descrivere la società, di far aprire gli occhi ai loro connazionali, dotandoli di nuove capacità di introspezione; forse è per questo che Hitler li ha sempre odiati tanto”. Oggi è tempo di fare lo stesso, spiega. Orit respinge con forza ogni paragone fra Angela Merkel e Adolf Hitler e tuttavia traccia un’analogia fra la situazione di allora e quella di oggi: “In ciascuno dei due casi, il bene dello stato, del Vaterland, prevale su quello dell’individuo, i cui bisogni vengono dopo quello dell’ente collettivo. E oggi a causa della politica di accoglienza tanti tedeschi hanno paura”.