La tivù delle (due) donne
D’Urso e De Filippi. Il trash e il pop. Pancia e metafora del paese. Un tiro a segno per gli indignati
L’etichetta di “regina del trash” la rigetta perché dice di sentirsi “camp”. Con 400 mila ore di tv alle spalle, stimate con un rapido calcolo da Freccero (“ha iniziato nel ’77, mediamente tre ore al giorno, circa 10 mila l’anno”), Barbara D’Urso vorrebbe immortalarsi nel canone celebrato a suo tempo da Susan Sontag, tra regie di Visconti, lampade “Tiffany”, coreografie di Busby Berkeley, Flash Gordon e il “Rosenkavalier” di Strauss. “Il camp può cancellare la moralità”, scriveva Sontag, “neutralizza l’indignazione morale, promuove ciò che è scherzoso, è il trionfo dell’artificio”. “Camp”, “trash”, “pop”, qualche volta “hardcore”, di certo uno spazio che nella tv italiana è ormai quasi integralmente risucchiato da Barbara D’Urso e Maria De Filippi, ognuna col suo esercito di freaks, casi umani, celebrities, amori, opinionisti.
La Rai3 di Angelo Guglielmi s’inventò la “tv delle ragazze” di Serena Dandini e la sua gang, Berlusconi ci lascia in eredità una tv delle donne, specchio, pancia, metafora del paese e tiro a segno per gli indignati. Perché prima ancora che “italianità”, l’azienda che oggi fa gola a Vivendi vuol dire Maria De Filippi e Barbara D’Urso. Oltre il quaranta per cento di share messe insieme, con i programmi della De Filippi che non scendono mai sotto il venti. Due pilastri degli ascolti, due interpretazioni diverse del nazional-popolare, due modi opposti e complementari di fare televisione, quella capace di spostare voti oltre che grandi investimenti pubblicitari. Dal giubbotto di pelle di Renzi ad “Amici” al “Ciao Matteo, come stai?” con cui Barbara D’Urso riceve l’ex premier sul divano; da Salvini che chiede voti per il No a “C’è posta per te” al rilancio del Nazareno bis a “Domenica Live” (“lo facciamo da me, a Canale 5”, inteso come casa di Barbara D’Urso, non del Cavaliere). Il nuovo immaginario politico passa dai loro programmi. Nell’Italia non più bipolare, non ancora proporzionale, Maria De Filippi e Barbara D’Urso hanno già oscurato il “contratto con gli italiani” firmato da Bruno Vespa nell’ormai lontanissimo 2001.
C’è stato un tempo in cui Maria De Filippi era il Male, l’epifania del degrado morale, l’incarnazione di tutti i peccati originali della tv commerciale. Un “male dell’umanità”, come la definì Sabina Guzzanti in una “Notte dell’onestà” del M5s a Napoli, per lanciare il suo spettacolo contro il neoliberismo. “Maria De Filippi riduce i sentimenti a qualcosa di mercificabile. Non è una questione di argomenti toccati, se parlasse di tragedia greca il risultato sarebbe sempre lo stesso”. Non se la filò nessuno. L’indignazione per la regina dei tronisti non si porta più neanche nei centri sociali. La mercificazione dei sentimenti ha cambiato volto da tempo. Barbara D’Urso ha abbassato l’asticella, “Pomeriggio 5” è il nuovo tempio dell’immoralità, Maria ascende le vette di Sanremo, riaccende il sogno del partito della Nazione, strizza l’occhio agli intellettuali. “Sostenere che Maria De Filippi sia un genio è socialmente accettato, anche a sinistra”, dice Massimiliano Panarari, autore de “L’egemonia sottoculturale”, libro sull’imbarbarimento televisivo degli italiani, mentre “Barbara d’Urso, che pure fa degli ascolti stellari e non è più volgare della De Filippi, per questi stessi ambienti è rivoltante, non è socialmente accettata. L’una è trash, l’altra è pop. Chissà perché”.
Eppure, la differenza si vede già dalla luce che le avvolge. La fotografia dei programmi di Maria De Filippi è ancora costruita con un minimo di chiaroscuro che evidenza contorni e profondità verosimili (nelle prime edizioni di “Amici” ricorda quella di “Sei forte maestro”, fiction televisiva Mediaset curata da Cesare Bastelli, direttore della fotografia per Pupi Avati e Marco Ferreri). Non c’è un uso smodato di “gelatine frost” e di tutti quegli effetti che trasformano i corpi in puri esseri di luce, come nel finale di “Cocoon”. Nel salotto di “Pomeriggio 5”, invece, va in scena un’ascesi spirituale permanente, la lux aeterna, il tunnel bianco coi parenti morti che ci chiamano, una smarmellata radicale a metà tra photoshop e la Madonna di Kazan dove risplende accecata di luce l’icona di Barbara D’Urso. Sara’ per questo che tutti dicono che Maria De Filippi è più “vera”, più “sincera”. In ogni caso, l’interrogativo di Panarari è mal posto. Il suo “L’egemonia sottoculturale” fa sembrare Adorno un nuovo guru della Silicon Valley; chiama a raccolta Debord e Deleuze, Gramsci e Foucault, rizomi e détournement pur di dare un supporto intellettuale alla condanna di Sabina Guzzanti, che ha almeno il pregio della sintesi.
Nelle magnifiche sorti e progressive dell’involuzione della società italiana, cara ai teorici del degrado morale, Maria De Filippi e Barbara D’Urso occupano posti diversi, hanno carriere diverse, obiettivi diversi. “Maria e io siamo complementari”, ha detto Barbara D’Urso. La letteratura di riferimento ci ha già consegnato l’immagine dell’operosità forgiata dalla provincia pavese di una e la sfrontatezza napoletana dell’altra, passata con disinvoltura da “Blues metropolitano” a “Discoinverno”, dalla clinica della “Dottoressa Giò” a quella del Dottor Lemme. Il piglio severo, l’inclinazione al comando, la pacata ferocia del tubino nero di Maria De Filippi e il vitalismo, la carica istintuale, l’euforia del limoncello, l’ostensione di tetta o lo stacco di coscia di Barbara D’Urso. L’apollineo e il dionisiaco della tv popolare. L’entusiastico inabissamento nelle profondità del trash e il superamento del caos in forme limpide di ordine, controllo, metamorfosi del Sé. Attorno a loro si ridisegnano i confini dell’accettabile e dell’inaccettabile, del professionismo e della volgarità, ma entrambe riescono a stabilire “un’equazione tra televisione e antropologia italiana”, come diceva Berselli parlando della Carrà, anche se qui emerge la “longue durée” della De Filippi, una che intercetta e cavalca la riconfigurazione etica ed estetica degli italiani da almeno vent’anni.
Complementari ma diverse. Il pubblico lo sa bene. Nella prima puntata di “House party”, ultima creazione di Maria De Filippi, costruita un po’ sulla scia di “Stasera a casa Mika”, Enzo Iacchetti si è lanciato in un’analisi comparata e ovviamente ironica tra lo stile televisivo di Barbara D’Urso e quello dell’inventrice di “Uomini e donne”. Mentre lodava Barbara D’Urso, la cosa è sfuggita di mano. Il pubblico si è messo a fischiare, ululare e inveire contro la conduttrice di “Domenica Live”, come nella peggiore delle curve razziste. Troppo frettolosamente archiviate nel “berlusconismo”, Maria De Filippi e Barbara D’Urso raccontano umori, sogni e sentimenti più profondi degli italiani.
“Questa trasmissione vende un’epica”, dice il critico televisivo Riccardo Bocca parlando di “Amici di Maria De Filippi”, “l’idea che tutto si possa fare, che tutto si possa ottenere con la volontà, che tutto, fama, denaro, gloria, sia a portata di mano. E il suo è un sogno, come un sogno è stato il berlusconismo: tutti voi potete diventare ricchi come me”. Siamo insomma di fronte al solito cocktail fatto di individualismo sfrenato, ricerca del successo, edonismo, tipico degli anni ottanta, con in più il radicale sdoganamento dell’estetica coatta portato dai Novanta. Un po’ troppo facile. Il modo in cui “Amici” si è radicato nel costume e nella cultura del paese meriterebbe qualche osservazione in più. I film, come diceva Hitchcock, sono una vita dalla quale sono state eliminate le parti noiose e “Amici” arrivò nella tv italiana come un’assemblea del liceo da cui hanno tolto le kefiah e “Bella ciao” per fare spazio ai “probblemi” e ai sogni dei ragazzi. Col passaggio dal formato del talk giovanile alla competizione del talent, il programma si è poi trasformato in un bildungsroman seriale che segna lo slittamento dalla cultura del “noi” all’emergere di un Io desideroso di riconoscimento. “Facevo una trasmissione sui genitori separati e ricevevo le lettere dei figli”, ricorda Maria De Filippi, “e dicevano: voglio fare il cantante, il ballerino, l’attore. E allora mi sono detta: proviamo con una specie di scuola artistica, diamo a questi ragazzi una possibilità”. A questo punto, l’indignato fa un passo indietro e ammonisce di non cadere nella trappola della falsa coscienza. Eppure. Come scriveva Walter Siti, “‘Amici’ realizza il miracolo di un programma pensato per i giovani che affascina gli adulti e accomuna le classi sociali, la ragazzina sottoproletaria, ma anche la studentessa borghese che fa il Dams all’università”.
Insomma, “invece che rispecchiare la miseria che siamo, o stuzzicare i desideri più primitivi (la sghignazzata facile, il colpo di fortuna, la curiosità del mostruoso, i culi e le tette) “Amici” scommette su un sentiero più difficile, quello del dover essere e della mediazione culturale. Lo spazio e il tempo del programma sono quelli di una vera e propria scuola; l’unica scuola che funziona in Italia”. A differenza dei borgatari di Pasolini, paragonati non di rado ai ragazzi di Maria De Filippi come emblema di una coattagine pura, non mediatizzata, senza piercing e pettorali, i partecipanti di “Amici” mettono in scena l’epica della possibilità e del riscatto, prima ancora che del successo. Un’idea che in un paese senza mobilità sociale non può che innescare ampi, radicati giochi di rispecchiamenti nel più prezioso dei target, ovvero quattro milioni di spettatori per la puntata d’esordio della sedicesima edizione, compresi tra i 15 e i 34 anni. Acrobazie intellettuali? Eppure, nonostante le pagine dedicate alla tv di Maria De Filippi, resta valido quel che notava lei: “Secondo me non hanno mai cercato di capire il tronista dal punto di vista sociologico. Il tronista non piace neanche a me, ma evito di pensare continuamente che sono meglio di lui”.
Basterebbe vedersi una qualsiasi puntata di “Pomeriggio 5” per capire che la differenza tra Barbara D’Urso e Maria De Filippi non si esaurisce nel modo opposto con cui si pongono davanti allo spettatore. Se una insegue un consenso nervoso, rapido e immediato, fatto di “guilty pleasure” e efferatezze, “Amici”, “Uomini e donne” e “C’è posta per te” sono il frutto di un lungo lavoro e soprattutto vanno pensati come una cosa sola. Un carattere fortemente unitario che non è dato solo dalla Fascino, la casa di produzione creata da Maria De Filippi. Siamo dalle parti delle grandi saghe epiche. Come ricorda Salvatore Patriarca in uno dei pochi ragionamenti utili per comprendere il fenomeno De Filippi, “Amici”, “Uomini e Donne” e “C’è posta per te” sono momenti di una trilogia nella quale si rappresenta un percorso narrativo dell’identità: “Ognuno di questi programmi incarna un principio-chiave, ovvero: la formazione, la competizione, la riconciliazione” (scrive nel suo “Il mistero di Maria”). Principi di drammaturgia validi dalla “Poetica” di Aristotele alle serie tv americane e catapultati nelle viscere della televisione popolare.
Si può dire che Maria De Filippi li forgia, Barbara D’Urso li spreme. Vedi la coppia Andrea Damante e Giulia De Lellis, creati e uniti da “Uomini e donne”, separati e messi alla prova dal “GF Vip” e infine radicalizzati nel divano della D’Urso, trasformati in epitome temporanea del gossip più feroce. Oggi, la tv di Maria De Filippi e Barbara D’Urso funziona come una factory. Ma con buona pace della D’Urso che si paragona spesso a Andy Warhol, quel ruolo semmai spetta a Maria.
Nelle “Donne erediteranno la terra”, l’ultimo libro di Aldo Cazzullo, il giornalista del Corriere della Sera le cita tutte, dall’inventrice di “Harry Potter” a Rita Levi Montalcini, da Sofia Coppola a Christine Lagarde e le eroine della Pixar. Sarà il secolo in cui le donne prenderanno il potere, dice. Non una parola però su quelle che intanto si sono prese lo share e hanno trasformato Mediaset in un matriarcato. Vedi l’ultimo “C’è posta per te”, costruito sul patto d’acciaio tra Maria, Belen, Emma Marrone e Alessandra Amoroso. Altro che “Se non ora quando”. Mediaset come uno di quei pianeti della fantascienza distopica retti dalle donne, come il Paraíso de las mujeres di Vicente Blasco Ibáñez, dove un esercito di amazzoni dello spazio domina incontrastato la galassia. Una galassia con un filo di femminismo, due dita di populismo, tante lacrime, degrado morale e familismo amorale per far sconfinare l’Italia dei media in quella tribale e viceversa. Una galassia nella quale ci sentiamo sempre a casa. Perché, come disse Maria De Filippi a Edmondo Berselli provando a spiegare il successo della sua tv: “La provincia è dentro di noi”.