Il Pitti che va in musica
Un dj set per trattenere gli ospiti alle presentazioni di moda. E Tommy Vee s’inventa pure le scarpe
Se c’è un’arte che alla moda deve molto è proprio la musica, per cui ha fatto benissimo Pitti Uomo a sceglierla come tema portante di questa novantunesima edizione, appena conclusa a Firenze, usando la leva dei social per invitare i partecipanti a girarsi un video ispirato alla coreografia ufficiale e inviarlo al sito della manifestazione, mentre a molti imprenditori e creativi è parso del tutto naturale prendere il tema come leit motiv per le collezioni o gli allestimenti presentati, quasi fosse inscritta nella loro memoria e nel loro dna culturale. Infatti è così. Musica e abbigliamento hanno trascorsi comuni millenari. Per esempio nella civiltà greca e in quella romana con i pantomimus, i primi balletti narrativi che richiedevano un abbigliamento adeguato ai movimenti e di cui la performance dei mimi acrobati scelti da Paul Smith per la presentazione della collezione Ps inverno 2017 andata in scena alla Dogana un paio di sere fa potrebbe essere una buona trasposizione moderna. Si ballava e ci si vestiva per poterlo fare al meglio alle feste del Duca di Milano, organizzate da Leonardo da Vinci, maestro di cerimonie e banchetti e con ancora maggiore sfarzo a quelle degli Este due decenni dopo.
Ma se i fogli di musica, con le arie, le canzonette e in genere la musica da salotto e da ritrovo mondano hanno avuto un boom di diffusione dal 1830 in poi, lo devono alle riviste di moda che, pur di offrire uno svago aggiuntivo alle lettrici più ricche, costrette all’ozio, iniziarono ad allegare a racconti e cronache mondane gli spartiti delle canzoni più in voga. Non esistendo riviste musicali, le ballate e le liriche più orecchiabili circolavano nei fascicoletti delle riviste, ed erano quasi sempre staccabili per poter essere collocate sul leggio e magari suonate indossando lo stesso vestito che, poche pagine prima, veniva proposto nel figurino di una radiosa ragazza seduta al pianoforte. Ne trovo subito una aprendo la prima raccolta che mi trovo fra le mani: “Donne al piano”, la Moda Illustrata, 1859; la prima è seduta, in modo da mostrare la guarnitura di nastri sulla scollatura; l’altra è in piedi, per rendere visibile alle lettrici il numero di balze applicate alla gonna a cerchi che indossa mentre sistema lo spartito perché l’amica possa suonare.
La Belle Assemblée, periodico sofisticato che le sorelle Austen si contendevano presso la locale biblioteca circolante, spesso abbinava all’accompagnamento musicale anche i passi di danza da eseguire. Gighe, quadriglie e i primi valzer, che i due partner ballavano ancora parecchio distanti l’uno dall’altra ma veniva comunque giudicato peccaminoso. Appena i sarti, divenuti creatori e stilisti, ebbero sufficienti denari e prestigio per poter ospitare quasi da pari a pari i grandi borghesi e la nobiltà, che significa dopo il 1870, i primi beneficiari della loro munificenza furono i musicisti che spesso, avendo le pezze al culo, accettavano in pagamento di composizioni ed esibizioni piccole somme ma soprattutto vestiti alla moda, che non avrebbero mai potuto permettersi altrimenti, per sé e per le mogli. I due fratelli Poiret, il famosissimo Paul e l’eclettica Germaine Bongard, un mix primi Novecento fra Jil Sander e Gabriella Pescucci che la storia della moda ha dimenticato, gareggiavano in splendore culturale, restaurando padiglioni di musica, promuovendo atelier musicali o eventi di svago colto, come fanno tuttora stilisti e produttori di moda su vasta scala, vedi Diego della Valle col Colosseo restaurato e riaperto con un concerto, o tre sere fa Stefano Ricci che ha festeggiato i quarantacinque anni di attività nella Sala Bianca di palazzo Pitti, culla originaria della moda italiana contemporanea, appena restaurata, incantevole: sfilata fra luci soffuse, per non turbare l’equilibrio delicato del luogo, cena, musica. Al pianoforte David Foster, forse il più famoso produttore musicale del mondo, canto di Matteo Bocelli, figlio di Andrea, giovanissimo, tenore ancora acerbo ma di buona voce, ragazzo bellissimo.
Entrambi i fratelli Poiret andavano pazzi per Erik Satie, che di certo non si sarebbe potuto considerare un campione di eleganza, visto che per anni, a cavallo fra l’Otto e il Novecento, aveva indossato solo le palandrane di velluto marrone dell’ordine religioso che aveva fondato in uno slancio mistico, L’Eglise métropolitaine d’art de Jésus Conducteur, in cui ricopriva il ruolo di primate, di tesoriere e anche di unico fedele; essendosene fatte fare sei, con un esborso inaudito per le sue finanze, le aveva portate fino a quando erano cadute a pezzi. A Montmartre, dove il sarcasmo era l’unica moneta circolante in quantità e dunque se ne spendeva parecchio, l’avevano ribattezzato “il gentiluomo in velluto”. Allora come oggi che i grandi eccentrici sono i soli a potersi permettere di frequentare il mondo della moda indossando solo i panni della propria alterità, l’entourage di Poiret aveva fatto di tutto per tenerselo vicino e per trovargli qualche ingaggio che gli permettesse di mantenersi fino a quando, nel 1914, era arrivata la commissione della sofisticata Gazette du bon ton per la trasposizione in musica di un album di disegni di Charles Martin, esperimento davvero unico e mai davvero ripetuto nell’editoria di moda. Da quell’incarico sarebbe nata la serie squisita di “Sports et divertissements”, benché al momento della loro apparizione, nel 1923, a Prima guerra mondiale finita e dittature europee in fieri, la Gazette du Bon Ton fosse fallita e lo stile di Poiret del tutto superato.
Per quanto riguarda invece Germaine Bongard, non so se abbiate presente il famoso dipinto del 1922 di Jacques Emile Blanche, “Le Groupe des Six”, in cui la pianista Marcelle Meyer compare accanto al meglio dell’intellighentsia musicale francese dell’epoca, Germaine Tailleferre, Darius Milhaud, Arthur Honegger, Louis Durey, Georges Auric, Francis Poulenc più Jean Cocteau, che per i sei aveva appena scritto il soggetto del “Boeuf sur le toit”, andato in scena al Théatre des Champs Elysées con la sua regia: il magnifico vestito di velluto nero col corpino smerlato e la gonna di seta bianca ricamata addosso alla Meyer era un dono della creatrice di moda, alla faccia di chi sostiene che il product placement sia una tecnica del marketing degli ultimi decenni.
Editoria, moda, musica sono una triangolazione talmente perfetta che sembrava quasi impossibile l’avessimo ridotta a uno di quei cafonissimi sottofondi di cui il Buddha Bar di Parigi ci ha ammorbato le orecchie e le serate nei primi anni Duemila, o a una delle pur simpatiche feste che accompagnano il cosiddetto “dopo sfilata” o la “presentazione con dj set”, che è il punto di questo articolo. Il dj set, versione Terzo Millennio e di certo molto più pop delle serate e delle feste delle Mille et une nuits organizzate da Poiret, che erano sì meravigliose al punto di essere diventate oggetto di studio per gli esegeti dello stile, ma erano anche una presentazione commerciale mascherata, dove sua moglie e le sue modelle, mute e sorridenti, circolavano fra gli invitati agghindate con i capi dell’ultima collezione, è diventato il complemento d’arredo essenziale di ogni installazione di moda e ogni “evento” che miri a trattenere gli ospiti per un minuto in più oltre a quello strettamente necessario per bere il calice di spumante tiepido offerto, ammirare quel che è esposto con una dose di entusiasmo pari all’importanza di chi espone e andarsene. E’ però grazie a una di queste serate che Tommaso Vianello, in arte Tommy Vee, “dj di fama internazionale” come dicono le sue biografie con la consueta, scontata formula che nel suo caso è decisamente incompleta, ha conosciuto Fabrizio Ferraro, proprietario del brand di calzature Be Positive. Visto che la musica è l’agglutinante originario di religioni, stile e business di cui si scriveva nelle prime righe, ne è nata una collezione di sneakers e polacchini niente male, posizionata in quel settore che tutti cercano di occupare, il leisurewear, e provvista di un nome talmente facile e diretto che dev’essere saltato fuori alla prima riunione, Veecious.
Il pezzo forte della collezione non si può comprare o, come per ogni serie firmata da una celebrity, se ne possono acquistare solo le insegne, i simboli, nel caso specifico le release e ora le scarpe, e si tratta naturalmente di Tommaso. La sua è una di quelle storie che, a volerla raccontare con ironia e non con il solito tono lagnoso o enfatico che le avvilisce, rendendole inservibili, potrebbe essere portata nelle scuole per infondere coraggio e regalare un sorriso alle vittime di bullismo e anzi Tommy Vee dovrebbe pensarci. Provate a immaginare un bambino grasso che cresce in una famiglia di veneziani magri, mondani e modaioli in cui compare perfino una zia buyer leggendaria che lo porta con sé alle sfilate di Complice quando le firmava Gianni Versace, e vi farete un’idea di quante risorse di forza e di allegria si debbano mettere in campo per non farsi schiacciare dal senso di inadeguatezza. Bullizzato, Tommaso non è stato mai “ma perché sapevo farmi voler bene ed ero un bambino simpatico”. La simpatia è una delle poche armi che chi non corrisponde ai canoni estetici della propria epoca deve di solito mettere in campo per garantirsi l’accettazione sociale; essendo Tommaso uno che non molla, con l’età e l’applicazione in palestra è dimagrito quel tanto che serviva a far risaltare un paio di occhi azzurri che la sua pr ritiene uno dei suoi atout più forti, e ne ha affinata un’altra, e cioè la capacità non di comporre musica, ma di produrla e di trasformarla in un momento di divertimento e di condivisione per le folle. Ha iniziato prestissimo, a tredici anni, accompagnando le festicciole delle sorelle.
A sedici era la star del liceo; a venti girava mezza Europa e guadagnava già benino. A quaranta, cioè adesso, quando rientra dagli ingaggi in mezza Europa vive a Cannaregio, al piano nobile di un palazzetto con affaccio sul Canal Grande che si è comprato qualche anno fa grazie ai diritti delle compilation, e ti spiega perché i deejay non diventano sordi come si tende a credere e come anche tu puoi proteggerti dai decibel con una tale chiarezza che ti viene voglia di verificare la tenuta del tuo timpano già stasera. Ti racconta anche come si impari a identificare il pubblico che si ha davanti in meno di quindici minuti, per potergli dare non solo la musica che si aspetta, ma anche quella che tu vorresti si abituasse a volere, e tu ti domandi se la stessa tecnica si potrebbe applicare alla scrittura. Spiega che gli spettatori meno facili, i più esigenti e i più pignoli, “malati di tecnicismo” in genere, sono gli uomini, immagino per un sentimento di sfida e di rivalsa nei confronti di quel tipo palestrato che sta alla consolle e attira gli sguardi delle donne e, come è facile aspettarsi, che lo stesso pubblico cambia se si trova a Milano a fine giornata lavorativa o a Ibiza in un’alba d’estate. Le donne pare invece che vogliano divertirsi e basta, ed è bello che per una volta non ci venga applicata la solita, banale etichetta sul nostro essere “dolcemente complicate”.
Tutte queste nozioni di marketing applicato, cioè vissuto sulla propria pelle, a Tommaso sono tornate estremamente utili quando il proprietario di Be Positive gli ha chiesto di sviluppare per il suo marchio una linea di sneaker, di cui il dj è, fra l’altro, un discreto collezionista: racconta di possederne circa trecento paia, compresi certi modelli hip hop anni Ottanta graffitati che ora si guarderebbe bene dall’indossare ma che possono funzionare benissimo in una collezione. Poi parla con competenza anche di performance e di pesi (da quando i trolley si sono fatti più piccoli e i controllori di volo ti rispediscono al check in per un etto in più sulla franchigia concessa a bordo, i produttori di scarpe stanno studiando suole e tomaie in mescole vulcanizzate leggerissime: nel suo stand a Pitti, Francesco Moreschi te le faceva soppesare una per una). E tu finisci per domandarti se la musica non sia davvero il miglior modo per vendere quasi tutto, ovunque.