Un silence che ci parla
Il film “per adulti” di Scorsese sui martiri nel Giappone del Seicento. E qualche domanda sulla persecuzione, l’apostasia, l’occidente e l’essenza del cristianesimo
L’attimo rivelatore di Silence non è il piede che calpesta l’immagine sacra, il fumi-e, l’istante supremo, o infimo, dell’apostasia. L’attimo rivelatore è un controcampo. Non il controcampo che arriva verso la fine, quando padre Rodrigues beve a un ruscello, e l’acqua rimanda il suo volto doloroso e stremato, finché dall’acqua, a guardarlo, si compone l’immagine del Cristo coronato di spine del Greco. L’immedesimazione finalmente totale, l’Imitatio Christi quasi davvero compiuta. Anche se la postura del corpo è quella di Narciso, e pour cause, e il volto del giovane prete cristiano è straziato dal riso e dal pianto. Il controcampo rivelatore è molto prima. Padre Rodrigues e il suo compagno padre Garupe si riposano un istante, sfiniti, fuori dalla capanna nascosta nel bosco. Smarriti, dubbiosi, braccati. Sopra il bosco vola per un attimo un falco. Qualcuno pronuncia la parola “Dio”. Dall’altra parte della piccola valle, vedono due figure tra gli alberi. Due contadini. Due uomini stenti, due kakure kirishitan, i “cristiani nascosti”. Guardano verso di loro. I due gesuiti hanno paura. Ma si riconoscono. Anzi si sentono riconosciuti. Perché sono lì, quei due contadini emaciati, a rischio della vita? Perché prima qualcuno era venuto. Altri uomini, altri cristiani. E avevano fatto di loro dei cristiani. E loro erano rimasti fedeli a quella comunione indissolubile tra chi è venuto a portare la fede e chi l’ha conservata. Perché erano andati in Giappone, padre Sebastião e padre Francisco? Si erano detti: per ritrovare il loro antico maestro padre Ferriera, che forse si era perduto nelle persecuzioni, forse aveva rinnegato. Ma ora si vedono, sono visti da quei poveri kirishitan randagi. Sono lì perché sono cristiani, e qualcuno li aveva fatti cristiani.
C’è una voce fuori campo, mentre nella miserabile baracca del villaggio i due celebrano di nascosto una messa senza paramenti, ascoltano le confessioni di parole che non capiscono. La voce dice: in mezzo a immani sofferenze, questi poveri contadini si erano fatti cristiani perché per la prima volta qualcuno li aveva trattati da uomini, non da bestie o da cose. Avevano trovato il loro valore assoluto. Non l’avrebbero abbandonato mai, il loro “pariaiso”, a costo della vita. La persecuzione dei cristiani nel Giappone del Cinque e Seicento fu spietata e terribile. Qualche decennio dopo l’arrivo di Francesco Saverio i cristiani erano quasi trecentomila. Qualche decennio dopo il massacro dei martiri di Nagasaki, nel 1597, l’episodio da cui prende le mosse il film, erano rimasti poche migliaia. Braccati. Costretti all’apostasia per il sospetto nutrito dallo shogunato Tokugawa, appoggiato dalla casta dei monaci buddisti, che la diffusione del cristianesimo fosse un’arma surrettizia della penetrazione di stati stranieri. E’ di questo, non della dottrina, che il Potere ha paura.
Nel Giappone feudale come in altri luoghi del mondo il cristianesimo è odiato perché è venuto a disturbare, a portare “il più grande disordine che ci sia stato nel mondo. Il più grande ordine che ci sia stato nel mondo”, come direbbe Péguy. Il che insegna che i cristiani, dai tempi di Nerone, sono sempre stati perseguitati per politica, e dal potere politico. Che poi spesso ammanta se stesso di motivi religiosi. Da questo punto di vista, il buddismo non è meglio dell’islam. Il che, nell’anno centenario dell’Ottobre rosso e di Fatima, insegna anche che ogni epoca, per i cristiani, ha un Nemico assoluto che poi assoluto non era. Ce ne saranno altri. C’è una domanda che Martin Scorsese lascia sotto traccia, ma balza evidente da ogni immagine. Perché mai dei pescatori, dei contadini giapponesi del Seicento si erano fatti cristiani, e custodivano la propria fede a costo del martirio? Così come oggi a Ninive dei cristiani, forse non così ferrati in dottrina e dialettica, si sono fatto crocifiggere alle porte delle loro case? Per nessun altro motivo, forse, se non per l’essere stati raggiunti da un messaggio che ha parlato loro di salvezza. Di felicità persino. Così come non c’è altro motivo in grado di spiegare perché nel volgere di pochi decenni decine di migliaia di schiavi, di marinai, di soldatacci e disperati persi in ogni suburra o angiporto dell’impero romano abbiano abbracciato, nel mercato di tutte le religioni allora disponibili, il cristianesimo. E l’abbiano testimoniato con poche parole e molto sangue.
Il primo motivo per cui il film dedicato da Martin Scorsese al martirio e all’apostasia dei cristiani del Giappone del Seicento è importante, è che parla di persecuzione. Quantomai attuale. La prima evidenza che mette sotto gli occhi è che alla persecuzione non si resiste in virtù della sola dottrina, né del proprio eroismo. E neppure perché si sta in un campo da difendere, o dalla parte del giusto. E’ interessante notarlo, oggi che è molto apprezzato difendere i cristiani perché stanno on our side. E ci sono anche schiere di volontari e organizzazioni che con generosità aggiornano la contabilità della persecuzione, come se la contabilità della persecuzione fosse il lasciapassare per avere un posto nel mondo. Nella parte giusta del mondo. Una parte cui appartenere. Non si vive o si muore da kakure kirishitan per avere il proprio posto nel mondo. Nemmeno nella propria terra. Questo racconta con crudezza quasi attonita il film. E non c’è cattiveria, non più di tanto, nella persecuzione che il Potere porta i cristiani. “Facciamo in fretta questa formalità, così ci togliamo dal sole”, dice a un certo punto un sollecito annoiato funzionario addetto al rito dei fumi-e. Il secondo motivo per cui Silence è importante è la sua inattuale attualità. Un’attualità che gli uomini saggi d’occidente preferirebbero scostare. E forse qui si capisce perché Scorsese ci abbia rimuginato trent’anni, prima di riuscire a cavare il suo film da un romanzo scritto nel 1966 da uno scrittore cattolico giapponese, Shusaku Endo.
Con intelligenza, Mariarosa Mancuso ha scritto che è “un film per adulti”. Antonio Monda ha scritto sull’Huffington Post che il consenso del pubblico “a un’operazione così spiazzante, non andrà oltre il rispetto”. Quasi fosse stata evocata dal fantasma della banalità, Alessandra Levatesi Kezich pochi giorno dopo ha scritto sulla Stampa che il film “suscita più rispetto che emozione”. Più smart, un critico americano ha commentato che sarebbe più contento se Deadpool vincesse più premi di Silence. Non c’è cattiveria in questo. Né supponenza verso il vecchio regista che da trent’anni medita un film sul silenzio di Dio. E’ che Silence è un film per adulti, mette a tema domande che non interessa porsi in un occidente dove, per citare il Dostoevskij tanto caro a Scorsese, nessun uomo moderno può seriamente porsi la domanda se credere in un Figlio di Dio fatto uomo. Non se lo chiede, e non interessa, l’occidente. Anche e soprattutto quando crede che la dottrina cristiana o la sua etica siano tornati d’un tratto molto importanti. Non se lo chiede lo scetticismo di ogni Potere e di ogni latitudine. Che siete venuti a portare in Giappone? Abbiamo le nostre regole e i nostri riti, non sono peggiori né migliori dei vostri, dice l’Inquisitore dello shogun – un omino tranquillo malaticcio e scettico, come ogni inquisitore. Spietato, ma soltanto per ragion pratica e di stato: “Padre, lei non è stato sconfitto da me. Lei è stato sconfitto da questa palude che è il Giappone”, dice la fine all’attonito apostata Rodrigues.
Il potere degli uomini è più scaltro della sapienza e della dottrina dei cristiani, di solito. E’ un altro insegnamento non trascurabile di Scorsese. “Su questo ti daremo retta un’altra volta”, dissero a Paolo sull’Areopago. Un’altra cosa che insegna è che la politica, al massimo, acconsente per un po’. In un altro famoso film, più hollywoodiano, meno profondo, sul martirio degli antichi gesuiti, Mission, i regni cristiani dell’Europa acconsentono per un po’ all’esperimento sociale dei figli di Ignazio. Fino a quando si accorgono che quel disordine introdotto dal cristianesimo, quell’unico ordine introdotto nel mondo, inizia a dare fastidio. Perché si diventa cristiani? Perché lo si rimane, quando si rischia la vita? La dottrina e la Verità intellettuale non bastano. Ma non è che non bastano se ti stanno per appendere a testa in giù in un pozzo per farti morire dissanguato. Non bastano nemmeno qui, nel tranquillo occidente. Ed è questa, forse, l’affermazione che disturba di più in film molto, molto, contemporaneo. Essendo un film sulla fede, è un film sull’apostasia. E’ il suo tratto più moderno. Non l’apostasia si qualche povero kirishistan, o di un paio di gesuiti del Seicento. Quando padre Rodrigues, che è un gesuita istruito e tetragono, come ogni buon gesuita, ingaggia la partita con l’Inquisitore sulla Verità, “noi non possiamo rinnegare la Verità, perché essa è universale, oppure non sarebbe tale”, non riesce ad averla vinta. Non tiene. Anche padre Ferriera, il migliore dei gesuiti, aveva ceduto. Davanti alla persecuzione, sì. Ma, soprattutto, come spiegherà molti anni dopo al suo giovane e smarrito discepolo padre Rodrigues, sul fronte della Verità. Non c’è nessuna verità, qui non hanno nemmeno una parola per dire Dio, gli spiega. Per loro Dio è il sole. Il sole risorge ogni mattina: che cosa gli vogliamo insegnare rispetto a un Dio che è risorto una volta? Domande che possono al massimo suscitare rispetto, nel mondo degli occidentali adulti.
A meno di volersi seriamente interrogare, oggi, sul silenzio di Dio. Sul silenzio di Dio durante e dopo ogni Auschwitz. Ma non ci si fa ammazzare nemmeno per questo. Padre Rodrigues, come già padre Ferriera, cede all’apostasia sotto il peso di un ricatto umanamente terribile, più violento della tortura fisica: rinnega tu, prete. Dai l’esempio. E i tuoi miseri fratelli vivranno. Oppure per la tua fede lascerai morire tutti loro? La voce di Gesù che finalmente si fa sentire gli dice: “Calpesta! Calpesta! Io più di ogni altro so quale dolore prova il tuo piede. Calpesta! Io sono venuto al mondo per essere calpestato dagli uomini! Ho portato la croce per condividere il dolore degli uomini”. E’ questa la vera voce di Dio? C’è già stato qualcuno che, agitando lo scandalo, ha additato il film di Scorsese come un’apologia della apostasia, un film contro il vero cristianesimo. E’ una lettura da fessi, basta vedere il film. Non c’è più amore più grande di chi dona la vita per il proprio fratello, dice il Vangelo. Ma rinnegare la propria fede per il proprio fratello? Difficile rispondere. Ma qualcuno potrebbe, seriamente e al di là di ogni ragionevole dubbio, affermare la sua condanna? O il momento della sconfitta della fede umana di padre Rodrigues non sarà invece il momento in cui incontra di persona la salvezza, una confessione di fede? E in cui in cristianesimo si rivela per ciò che è, non una dottrina da perseguire ma l’abbraccio di Cristo? Dopo averci pensato trent’anni, Scorsese non risponde per noi. Ma l’ultima inquadratura del film, lo sguardo irreale della macchina da presa che penetra nel cilindro di legno destinato al funerale buddista dell’ex padre gesuita, vale una mezza confessione adulta.