Sarò fesso, ma il cristianesimo di Silence è una farsa insidiosa
Il Dio di Scorsese e’ un’icona postmoderna e ambigua che ragiona secondo una logica mondana. Risposta a Crippa
Al termine di un affascinante percorso fatto di punti di domanda e ferite aperte, Maurizio Crippa condanna senza scampo l’errore di chi giudica Silence un film contro il vero cristianesimo. “E’ una lettura da fessi”, certifica. E io, che sono talmente fesso da non riuscire nemmeno ad afferrare l’opposizione fra dottrina e abbraccio che sta alla base della sua recensione, sono tentato di perseverare diabolicamente nella fesseria. Silence è un film monumentale che ci insegna tante cose – Maurizio le spiega da par suo, inutile ricapitolare – e fuor di trama ci insegna qualcosa sulla stoffa umana del suo regista, Martin Scorsese, uno che nella vita si è fatto le domande decisive e ha covato per decenni l’opera che è il frutto maturo, adulto, di tutto questo corpo riflessivo che è inevitabilmente sacro, religioso, questuante e proteso verso le cose ultime. L’esasperazione del dramma umano è il tesoro di questo film.
Il problema è che viene tragicamente sperperato quando la tensione viene in qualche modo risolta. Come testimonianza intorno al senso religioso, per usare la nota formula di don Giussani, Silence è un capolavoro. Come rappresentazione del cristianesimo una farsa, ma molto insidiosa. Qual è l’insidia? Il silenzio, innanzitutto. Il Dio di Silence tace. Non è una voce criptica e intermittente, non è la latens deitas adorata da Tommaso, né il Dio enigmatico del popolo d’Israele, che contemporaneamente si vela e si svela in un costante dialogo che ha le sue pause, ma non si interrompe mai. Qui non dice nulla. I segni della sua presenza non si vedono, nemmeno le semplici comunità dei kakure kirishitan, pur nella loro commovente devozione, sembrano animate dall’impossibile speranza che il cristianesimo ha introdotto nelle loro vite, non s’intuisce il riflesso in questo mondo di una luce che viene dall’altro mondo. Forse la rappresentazione è storicamente fasulla, ma è quella che Scorsese ci offre, uno spaccato di vita devozionale denso di elementi superstiziosi in cui il “paraiso” è un luogo dove “nessuno ha fame, nessuno si ammala, non ci sono tasse e non si lavora”. E’ la fede dei semplici, certo, ma è dall’inizio del cristianesimo che i semplici sono ammessi in forma privilegiata alla sapienza, mentre quelli che si credono sapienti sono confusi. Quando Dio si decide infine a parlare lo fa attraverso il fumi-e che l’inquisitore vuole che padre Sebastião Rodrigues infine calpesti, atto d’abiura che nelle parole degli aguzzini è “soltanto una formalità” e per il maestro di un tempo, padre Cristóvão Ferreira, è “il più doloroso atto d’amore mai compiuto nella storia”.
Il Cristo dell’icona dà ragione agli uni e all’altro: “Vieni avanti ora. Va tutto bene. Calpestami. Capisco il tuo dolore. Sono venuto al mondo per condividere il dolore degli uomini. Ho portato la croce per il tuo dolore. Calpestami”. I cristiani che già avevano fatto apostasia e stavano subendo l’atroce tortura della fossa soltanto a causa dell’orgogliosa ostinazione di Rodrigues vengono liberati all’istante, il dolore cessa. Ferreira lo aveva detto chiaro: “Se Cristo fosse qui avrebbe fatto apostasia per loro”. Avrebbe anche trasformato i sassi in pane nel deserto? Sarebbe sceso dalla croce per convincere i soldati romani che era davvero il figlio di Dio? Chi è il presuntuoso, l’ostinato, quello che soffre e genera sofferenza negli altri per non tradire il Bene supremo, oppure quello che con il suo gesto che lenisce afferma “tutto è nelle mie mani”? Il paradosso di Borges Sia chiaro: la vicenda che Scorsese presenta con scorticante potenza di immagini è un groviglio tragico di dilemmi morali che nessuno può permettersi di ridurre o irridere. Ma il regista, seguendo il romanzo di Endo, non racconta soltanto la storia della debolezza umana, offre una teoria del martirio. Naturalmente non la enuncia, ma la implica e la mostra. Rodrigues non dice “ti calpesto perché sono debole, un peccatore sopraffatto da circostanze insopportabili” ma dice “ti nego perché tu mi hai detto che è ok”.
Nell’unico, fatale momento che interrompe il silenzio, Dio dice a Rodrigues che l’interruzione del dolore degli uomini è più importante della testimonianza resa a Lui, che tanto ha già vinto il male e la morte. Non c’è più bisogno che qualcuno si metta su quella via dolorosa. L’abbraccio della condizione umana viene prima di tutto. Seguendo questa logica fino in fondo bisognerebbe infine accettare il paradosso di Borges e abbracciare Giuda come vero messia, lui che per permettere la storia della salvezza ha pagato con la dannazione eterna, mentre chi è onnipotente se la cava con un patimento di tre giorni. Non sarà proprio un caso che Kichijiro, il personaggio che sempre tradisce e sempre ritorna al confessionale di Rodrigues, sia accostato all’Iscariota (didascalica la scena in cui le guardie dell’inquisitore gli scagliano le monete d’argento ai piedi) ma che Scorsese dica che è “un po’ Gesù” e lo ritenga il personaggio più affascinante, perché è quello che rimane sempre al fianco del prete. In questo silenzio divino, l’abbraccio e la compassione vincono sull’ostinazione dogmatica, sulla stolida battaglia di principio. La questione che mi fa grattare il mio capo di fesso di fronte a un Gesù che pronuncia parole a un tempo lenitive e tentatrici è che per secoli e secoli aveva detto il contrario. La chiesa è fondata sui martiri, tanto che per molto tempo la figura del santo è coincisa con quella del martire, e i primi martirologi nemmeno menzionavano come questi uomini e donne avessero vissuto, concentrandosi esclusivamente sulla loro morte, cioè sul dies natalis.
Martire significa testimone – precisazione ginnasiale – ma testimone di cosa? Santa Felicita, imprigionata e in preda al dolore per il parto imminente, risponde così al suo carceriere che, vedendola soffrire, la schernisce domandandole cosa farà una volta che la getteranno in pasto alle fiere: “Adesso sono io che soffro ciò che soffro; ma allora ci sarà un altro in me, che soffrirà per me, perché anche io sto per soffrire per lui”. E’ la comunione con la passione di Cristo il contenuto della testimonianza dei martiri, i quali mostrano con la loro sofferenza ciò che san Paolo insegna ai Galati: “Io vivo, ma non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me”. E’ qualcosa di più, e certamente di diverso, di un umano eroismo. Quella dei martiri è una saga fatta di vita, non di morte, e le testimonianze scritte e iconografiche rappresentano i martiri come uomini invasi innanzitutto da una irriducibile letizia, che poi è la stessa laetitia dell’amore cristiano cui fa riferimento Francesco. Una morte lieta? E’ una figura del paradosso cristiano.
Marco Aurelio, imperatore stoico, non è impressionato tanto dalla resistenza dei cristiani alla persecuzione – ha visto molte testimonianze della resilienza umana – ma dal fatto che, a differenza degli altri, loro la desiderano, la abbracciano, la loro prontezza alla morte viene “da un proprio giudizio individuale”, e questo è inaudito anche fra gli stoici, che pure sopportano impassibili le circostanze avverse. Sant’Ignazio di Antiochia arriva a pregare che le belve non si facciano confondere, non esitino: “Le alletterò perché presto mi divorino e non succeda, come per alcuni, che intimorite non li toccarono. Se incerte non volessero, le costringerò”, scrive nella lettera ai Romani, invocando con zelo il martirio: “Il fuoco, la croce, le belve, le lacerazioni, gli strappi, le slogature delle ossa, le mutilazioni delle membra, il pestaggio di tutto il corpo, i malvagi tormenti del diavolo vengano su di me, perché voglio solo trovare Gesù Cristo”. Ignazio sa bene che questo sconfinato amore può apparire folle e assurdo, e infatti specifica: “Perdonatemi, so quello che mi conviene”.
Ci sono innumerevoli testimonianze in questo senso, e all’orecchio moderno suonano agghiaccianti e scandalose. Sono parole da fessi. Ma non è il cristianesimo il più grande scandalo che abbia attraversato la storia? Non è il rovesciamento delle concezioni mondane d’ogni tempo? La fesseria suprema? Il “giudizio individuale” di questi testimoni che Marco Aurelio non riusciva proprio ad afferrare implicava che esistesse un bene più grande anche della vita materiale, propria e altrui, e a questo giudizio non erano certo arrivati con le lezioni di teologia, era l’esperienza della vita cristiana a suggerirlo. Testimoniarlo era un atto di suprema convenienza, per quanto il mondo la giudicasse sconsiderata. Giussani e il Dio di Sartre Scorsese non riesce a tenere questo livello, e infatti ci racconta magistralmente l’umano e il disumano, ma sul sovrumano pasticcia, e infine arretra.
Come? Rappresentando un Cristo postmoderno e ambiguo che ragiona secondo una logica mondana, che non crede davvero che il sacrificio compiuto nel suo nome possa dare frutto, e suggerisce ai suoi tribolati discepoli un’abiura per ragioni umanitarie. Ragioni sacrosante per la misura umana, che non concepisce come una persona possa mandare a morte altre persone per il rifiuto di calpestare una stupida tavoletta. Ancora: la questione non è certo l’apostasia di due preti gesuiti, che è un fatto di umana debolezza, di peccato, quanto il fatto che sia Dio stesso a giustificarla, sigillandola come giusta e perfino virtuosa. Questo abbassamento del tiro, uno scarto in cui la misericordia degrada in compassione e la grazia in abbraccio, ha un prezzo già evidente nella vicenda del film. Padre Rodrigues, che pure rimane cristiano nel nascondimento dopo l’abiura, conduce una vita agiata e triste, senza dolore ma anche senza letizia. Nelle note di scena, Scorsese scrive queste indicazioni nel taglio in cui un gruppo di bambini canzona il prete apostata: “Non riesce a sentirli. Sorride. Il sorriso è triste. Ma tutta la tensione se n’è andata dal suo volto. Il dolore è svanito”. Endo è ancora più esplicito nel rimarcare la distanza fra l’ardente missionario che sfida l’inquisitore sull’universalità della Verità cristiana e il serafico “prete caduto” che conserva la fede in un Dio privato, intimo, avulso dalla storia: “Sono caduto, ma Signore, tu solo sai che non ho rinunciato alla mia fede. […] Il mio Signore però è diverso dal Dio che si predica nelle chiese”.
La tentazione è ammettere che il Dio del prete caduto non solo è diverso, ma è anche migliore di quello delle chiese – dei teologi, dei sapienti, dei preti pedofili, dei cardinali con i dubia – perché è più umano. E qui casca il fesso. Don Giussani raccontava un episodio emblematico. Diversi suoi studenti del liceo Berchet erano andati a vedere Il piccolo diavolo e il buon Dio di Jean-Paul Sartre, in scena al Piccolo Teatro, e in classe alcuni “ripetevano con aria sardonica certe battute riferite a Dio”. “Io facevo notare loro, molto tranquillamente, che quello che stavano deridendo era il dio di Sartre, vale a dire un dio per me inattendibile, che non coincideva per nulla con quello in cui io credevo”. Non saprei dire con la stessa sicurezza esibita da Maurizio se Silence è un film contro il vero cristianesimo, ma mi pare un’opera sul dio di Scorsese, che è molto interessante ma per me inattendibile.