Mani bucate
C'è ben poco di nuovo nella fusione tra passato e presente in Yolocaust
Il progetto (poco innovativo) per la Giornata della memoria
In attesa del Giorno della Memoria, ecco un piccolo elenco alla rinfusa di fatti diversi degli ultimi anni che nulla hanno a che fare con la memoria: giocare a Pokémon Go nel Museo dell’Olocausto di Washington; srotolare un’enorme bandiera con la svastica sul palazzo della prefettura di Nizza per promuovere un film; riprendere il nonno sopravvissuto e i nipoti che ballano “I will survive” davanti ai cancelli di Auschwitz e caricare il video su YouTube; disegnare i Simpson dietro al filo spinato; fotografare, oggi, i luoghi dello sterminio usando le stesse angolazioni delle vecchie immagini e poi aggiungere in sovrimpressione, come gli ectoplasmi nelle foto degli spiritisti ottocenteschi, le sagome dei deportati in casacca a strisce. Quest’anno a scompigliare un poco il cerimoniale del Giorno della Memoria è arrivato Yolocaust – il titolo è un gioco di parole su Yolo, acronimo colloquiale che sta per You Only Live Once – un progetto fotografico di Shahak Shapira, giovane artista e umorista israeliano che ha vissuto molti anni a Berlino. Per Yolocaust, Shapira ha pescato dai social network fotografie di visitatori del Denkmal di Berlino che fanno le cose più varie – saltano, ammiccano, praticano yoga, protendono sorridenti il selfie stick – e le ha combinate con immagini d’archivio dei campi di concentramento; di modo che quando ci si passa sopra il mouse, i turisti virano dal colore al bianco e nero e alle loro spalle appaiono distese di cadaveri.
Il memoriale di Eisenman si presta da che esiste a esibizioni di ogni genere, ed è ironico che un luogo nato sotto l’insegna della retorica dell’irrappresentabile – un immenso reticolo astratto di blocchi grigi di cemento – sia diventato il set di una perenne rappresentazione. Nell’idea di Shapira non c’è molto di nuovo, a meno di voler definire nuova la fusione di due cose vecchie di vent’anni: l’“Autoritratto a Buchenwald” dell’artista digitale inglese Alan Schechner, che aveva preso una foto di deportati in una baracca e ci aveva infilato la propria immagine con una lattina di Diet Coke in mano; e quel vario filone di critica culturale sul turismo nei luoghi della memoria che dai tempi di “Schindler’s List” ha ispirato saggi, romanzi e perfino qualche film – il mio preferito è il cortometraggio “The Holocaust Tourist” di Jes Benstock, l’ultimo di cui abbia notizia è “Austerlitz” di Sergei Loznitsa, presentato l’anno scorso a Venezia. Ma che cosa accomuna gli esempi sparsi del mio elenco – alcuni frivoli, altri serissimi – presi dall’arte, dalla pubblicità, dalle cronache di costume, dalle mode? Li accomuna il tentativo di creare una collisione tra presente e passato che inneschi, secondo i casi, shock, sensazioni perturbanti, scandalo, terrore, divertimento, sdegno, disgusto.
Questo cortocircuito segue di solito due schemi, uno più rassicurante, l’altro decisamente meno. C’è lo schema che potremmo chiamare “Forrest Gump” – ci si intrufola nelle immagini dei campi di concentramento come Tom Hanks faceva capolino nei filmati in bianco e nero accanto al presidente Kennedy; e c’è lo schema “Shining” – dove è Auschwitz che viene a farci visita, squarciando per lampi improvvisi e violenti la trama della nostra quotidianità. Per una via o per l’altra, tra passato e presente non c’è modo di creare nessuna continuità naturale, bisogna forzarne l’incontro come si ravvicinano i lembi di una ferita da suturare. A molti questo vecchio arnese dell’avanguardia pare l’unico espediente per scuotere il lunghissimo e dilatato istante in cui le nostre vite ristagnano, anche grazie a un secolo di bombardamento sensoriale inaugurato appunto dall’avanguardia. In tutto ciò, non ho ancora detto perché i miei esempi non hanno nulla a che fare con la memoria. E’ che, da quando mi sono messo a scrivere, l’ho dimenticato.