Le elementari
Il disamore per la lingua italiana, il fastidio per le regole e un figlio che giocando grida: “Sparalo!”
Domenica pomeriggio mia figlia studiava Storia, mi ha chiesto che cosa significasse “l’espansione del feudalismo”. Che cosa? Lei: il feudalismo, mamma! No ti prego, leggi bene, sto per svenire. Lei: ah no scusa: è il feudalesimo, non ti arrabbiare. Invece io mi arrabbio. Non per i vassalli e i valvassori e l’impero carolingio, ma per la parola: feudalesimo. Si legge e si scrive così, ed è una parola importante, e voglio che mia figlia la conosca e la scriva bene, e pretendo che non dica: “Gli ho regalato un coniglio”, se ha regalato un coniglio alla sua amica Gisella.
Mia figlia ha dieci anni, e io ho combattuto a lungo perché lei e suo fratello e i loro amici, giocando alla guerra, smettessero di urlare: “Sparalo!”. Se urlavano: sparalo, io urlavo più forte, e alla fine ho vinto, adesso sparano correttamente. Non può essere colpa (soltanto) della Pubblica istruzione e del sistema scolastico se i diciottenni che arrivano all’Università non parlano e non scrivono bene l’italiano: è colpa nostra, è colpa del disamore. Per la lingua italiana e in generale per le regole.
Quando Luigi Di Maio, vicepresidente della Camera, maturità classica, un po’ di Università, ha sbagliato per tre volte consecutive i congiuntivi in un tweet (“Se c’è rischio che soggetti spiano massime istituzioni dello Stato, qual è il livello di sicurezza eccetera”, poi, nel tentativo di correggere: “Se c’è rischio che massime istituzioni dello Stato venissero spiate qual è il livello di sicurezza eccetera”, infine, stremato: “Se c’è il rischio che due soggetti spiassero le massime istituzioni dello Stato eccetera”), tutti lo abbiamo preso in giro, ovviamente, ma la sensazione, e la reazione, è stata netta: il congiuntivo è un dettaglio, non è grave, è molto più grave che i politici rubino, ad esempio.
Quindi non è grave che mio figlio non usi i congiuntivi, non è importante che in televisione non usino i congiuntivi, che tutti parlino un po’ come gli viene, e che l’acca al verbo avere, “io ho una mela”, venga messa solo nei momenti di generosità, altrimenti basta un accento, si capirà lo stesso, si va più veloci.
È in atto una trasformazione della lingua italiana, una “liberazione” dalla grammatica, dall’ortografia (la virgola dopo il soggetto!) e dalle regole della consecutio temporum. Come se fosse roba superata, inutile, troppo noiosa per avere ancora senso, anche un po’ altezzosa, da gente che per sembrare chic, non essendolo, solleva il mignolo quando beve il caffè. È una trasformazione che riguarda tutti, non soltanto i ragazzini che si scambiano messaggi con le faccette e non hanno più bisogno di parole, e se si scambiano note audio ci mettono tutta la fantasia di una lingua giovane e anche affascinante. È l’abbandono di qualcosa che non ha più valore, perché ci sono tantissimi altri modi di comunicare, e comunque “parla come un libro stampato” non è più un complimento, ma una dichiarazione di sospetto.
A volte, soprattutto negli sms, io mi vergogno di usare il congiuntivo e allora lo cancello prima di inviare il messaggio, perché non voglio sembrare formale, ingessata, polverosa. Ignorante mi sembra meno grave. Subito dopo mi pento della mia pavidità, ma il messaggio è partito senza congiuntivo. Allora torno a casa e per rimediare sgrido i miei figli, e dico che se non impareranno a parlare bene non potranno mai scrivere né pensare bene, cito “Palombella rossa”, rimpiango quella vecchia trasmissione televisiva con il professor Beccaria, “Parola mia”, e divento patetica. Loro pensano che io sia pazza. Però credo che ce la farò, a farli arrivare alla maggiore età senza dire mai: è stata colpa della scuola. Al massimo dirò: è stata colpa mia.
Dove fioriscono le rosalie
Palermo celebra la santa patrona con l'arte, un dialogo fra antico e contemporaneo
Gli anni d'oro del Guercino