Leggiamo sempre meno ma ci iscriviamo sempre di più al liceo. Perché?
Il complicato rapporto, tutto italiano, tra sapere e fare
Il dato secondo il quale gli studenti italiani alle superiori preferiscono ancora iscriversi ai licei, ci impone alcune riflessioni sul rapporto tra sapere e saper fare, nel nostro paese interpretato sempre in modo conflittuale e con una visione obsoleta del passaggio dalla scuola al mondo del lavoro.
Se la prevalenza della cultura umanistica venisse letta alla luce di un dualismo storico che vede contrapposti da una parte i licei e dall’altra gli istituti tecnici, avremmo continuato ad analizzare il mondo della formazione e del lavoro con i canoni del secolo scorso. La diversità culturale e la modernizzazione del sistema educativo, invece, sono proprio alla base delle economie innovative e creative, perché portano la capacità e la possibilità di guardare al mondo e alla risoluzione dei problemi con una prospettiva originale e diversa.
A Fabriano e a Bergamo, ad esempio, imprese meccaniche assumono laureati in filosofia, materia che viene insegnata finalmente nelle facoltà di Ingegneria, mentre a Riccione in un liceo scientifico le lettere si studiano sui libretti delle opere liriche.
I ragazzi delle nuove generazioni cambieranno in media 5/7 professioni nel corso della loro vita, facendo mestieri che non esistono ancora nel momento in cui si accede al mercato del lavoro per la prima volta. Nascono e si evolvono, quindi, settori che richiedono conoscenze sempre nuove, così come la capacità di adattarsi e plasmarsi costantemente ai nuovi saperi, che necessitano di professionalità in grado di produrre e sviluppare innovazione continua.
In questo contesto così dinamico ci può essere ancora spazio per uno studente del liceo, in particolare classico? Affermare che la scuola non può più essere un’istituzione separata dal resto della società, e in particolare dal mercato del lavoro, significa implicitamente affermare che il latino e il greco sono l’anticamera della disoccupazione?
Se il peso è spostato tutto sul sapere – come è avvenuto da sempre in Italia – come dobbiamo spiegare i successi di Richard Branson, numero 1 della Virgin, che ha lasciato la scuola a 16 anni, Mark Zuckerberg (Facebook), che ha terminato in anticipo gli studi universitari per lavorare al suo progetto, Steve Jobs (Apple) che ha lasciato l’Università dopo un solo anno, o di Eugenio Montale (Premio Nobel alla letteratura nel 1975), che aveva solo un diploma in ragioneria?
Nel 1955 l'allora presidente della Repubblica Luigi Einaudi (economista liberale) tentò di avviare inutilmente un dibattito sul valore legale del titolo, dogma tutto italiano, come insegnano i casi di Oscar Giannino e del ministro dell’Istruzione Fedeli, che hanno voluto anteporre al saper fare (le competenze acquisite) il sapere (un titolo accademico). Un laureato guadagna in media il 25-30 per cento di più rispetto a un diplomato, e quindi il titolo se accompagnato al talento e alla capacità di costruirsi una professionalità può fare la differenza.
In Germania il numero di apprendisti è tre volte superiore ai nostri 450mila, e il 44 per cento degli iscritti universitari tedeschi rispetto al totale frequenta Fachhochschulen (Università di Scienze applicate), mentre da noi a frequentare corsi accademici professionalizzanti è solo lo 0,4 per cento degli studenti. Investire in modo serio sulla formazione significa fare politica industriale e scommettere sul futuro. Andiamo, quindi, oltre il tradizionale confronto liceo-istituto tecnico, incentrato sulla pianificazione e sulla standardizzazione dei programmi, che tra l’altro negli anni hanno prodotto risultati scarsi, come ha di recente certificato anche l’indagine Ocse-Pisa, che ha ravvisato negli studenti un netto calo delle competenze scientifiche e un leggero declino nella capacità di lettura.