Vivere come un unico corpo multiplo
“Il nascondiglio”, storia di una botola e di una famiglia pazza ma felice, tappata dentro
Dormivano tutti nella stessa stanza, nell’appartamento grande di rue de Grenelle, a Parigi: i nonni nella camera da letto, i nipoti per terra dentro i sacchi a pelo, come i genitori e gli zii prima di loro. Un unico corpo multiplo disposto a stella. La porta della stanza sprangata con una sbarra di ferro, la cena consumata lì, sul tavolino basso, i piedi scalzi, la moquette spessa, le mani nei piatti, tutti sempre insieme, un blocco compatto anche in automobile, durante i viaggi: non ci si separava mai e per evitare le hall, i corridoi interminabili, le scale strette, le persone cattive, Mère-Grand (come si faceva chiamare la nonna, Myriam, che scriveva romanzi con pseudonimo) preferiva dormire seduta nell’automobile che guidava sempre lei, rannicchiata su se stessa, in una città a caso, in Iran o al Circolo polare, con i famigliari stretti tutt’intorno.
“Quando partivo con loro, mi stendevo nel bagagliaio, che restava aperto per consentirmi di respirare, in mezzo alle valigie”, ha scritto Christophe Boltanski in questo romanzo, “Il nascondiglio” (pubblicato da Sellerio), che in Francia ha vinto il Prix Fémina e che racconta la storia dei Boltanski, una famiglia di intellettuali parigini un po’ pazzi che non viveva reclusa, ma semplicemente saldata. Saldate le persone le une alle altre, per esorcizzare la paura delle catastrofi e perché il nonno Etiénne, medico ebreo, era rimasto nascosto in una botola di quell’appartamento per due anni, tra il 1942 e il 1944, e nemmeno i suoi figli sapevano che fosse lì. Usciva solo di notte, quando nessuno poteva vederlo.
Uno dei figli, Christian Boltanski, è il più importante artista concettuale francese. Poi ci sono Luc, sociologo e poeta, l’altro zio Jean-Elie, linguista. Christophe Boltanski è stato corrispondente di Libération, ora reporter per il Nouvel Obs. E ha raccontato questo modo irrinunciabile di restare sempre attaccati, di vivere come in un formicaio, senza separarsi mai, nemmeno per andare a scuola. I bambini venivano educati dentro casa, e da casa si usciva solo per entrare, direttamente dalla porta della cucina, nella Cinquecento bianca parcheggiata nel cortile, pronta a partire, quasi attaccata al muro, come la capsula di salvataggio di un missile. Uscivano tutti insieme, stipati lì dentro, la madre e poi nonna Myriam alla guida, che faceva da autista al marito e a tutti, e forse non aveva la patente, e restava ad aspettare in macchina fuori dai palazzi e dagli uffici e fumava.
Lo zio Christian uscì di casa da solo per la prima volta a diciott’anni. Non fece molta strada. Appena cinquecento metri, tra rue de Grenelle e la minuscola galleria Les Tournesols, specializzata in arte yiddish, che sua madre aveva aperto in rue de Verneuil per trovargli qualcosa da fare. Al ritorno, lei andò a prenderlo in auto. Bisognava restare appiccicati perché la tragedia incombeva anche fuori dagli anni della tragedia, bisognava essere compatti. Quando lo zio Luc manifestò l’intenzione di dedicarsi alla vela, si ritrovò su una barca con tutta la famiglia. Un dieci metri monoscafo, provvisto di skipper, con madre padre e fratelli a bordo. Come fece sua madre, con le gambe matte che si ritrovava a causa della poliomelite, a salire sulla barca? “Se Luc avesse voluto attraversare il deserto in carovana, l’avremmo seguito a dorso di cammello”. L’idea della botola è che la botola prima ti salva, poi diventa una patologia, poi un’età dell’oro. “Non sono mai stato tanto libero e felice come in quella casa”, ha scritto Christophe Boltanski, che guardava suo nonno ballare in vestaglia, fiero di essere vivo, salvo, al sicuro dentro una stanza e un’automobile trasformati in roccaforte: si sono tutti lanciati nel mondo da lì, tappati dentro nella luce, nonostante il buio.