Il seno nudo di Emma Watson che fa inviperire le femministe britanniche
Si può essere nudi in molti modi: può essere sintomo di emancipazione o di sessismo. Ma l’uso che una decide di fare del proprio corpo non dovrebbe riguardare la dose di rispetto che merita, né la validità o meno delle campagne che decide di appoggiare
Anna Meldolesi nel suo libro “Elogio della nudità”, racconta la vicenda della turista danese Lise Wittrock, che nell’estate del ’71 passeggia in pantaloncini rosa nel centro di Palermo. Il pretore Vincenzo Salmeri è convinto di intravedere una natica e fa portare in commissariato la “spudorata”. Oggi il pretore è senza baffi e ha le fattezze della speaker radiofonica Julia Hartley Brewer, mentre l’indecenza è incarnata dall’attrice Emma Watson, immortalata in topless su Vanity Fair in occasione del lancio del suo nuovo film "La bella e la bestia". Il servizio fotografico è quasi pudico, il seno dell’attrice seminascosto da un bolerino di Burberry. Ma anche se s’intravede appena tra le maglie di pizzo crochet, inviperisce la falange più intransigente del femminismo puritano, quella che assimila una donna nuda su un giornale alla sottomissione.
Watson, che inizia a undici anni la sua carriera cinematografica recitando nella saga di Harry Potter, è anche ambasciatrice dell'Onu. Con l’organizzazione lancia nel 2014 la campagna per l'uguaglianza dei generi HEforShe. Proprio per questo suo impegno femminista, secondo l’inglese Brewer, una tetta su carta patinata è un’intollerabile ipocrisia. Basta un tweet e parte la diatriba tra chi appoggia la giornalista e chi è convinto che femminismo non significhi censura del nudo.
Emma Watson: "Feminism, feminism... gender wage gap... why oh why am I not taken seriously... feminism... oh, and here are my tits!" pic.twitter.com/gb7OvxzRH9
— Julia Hartley-Brewer (@JuliaHB1) 1 marzo 2017
Si può essere nudi in molti modi: può essere sintomo di emancipazione o di sessismo. Ma l’uso che una decide di fare del proprio corpo non dovrebbe riguardare la dose di rispetto che merita, né la validità o meno delle campagne che decide di appoggiare. Per secoli corpetti listati di stecche di balena e rigide impalcature hanno celato il corpo delle donne. Che a fatica si sono sbarazzate di mutandoni e sottogonne. Prima di arrivare a Mary Quant e alla sua iconica “mini” c'è voluta Amelia Bloomer, che nel 1851 inventa i pantaloni da donna, con la scusa di andare meglio in bicicletta. Fa scandalo, ma siamo agli albori del femminismo. Nel 1881 la viscontessa Haberton fonda la National Dress Society e dice stop a chili e chili di biancheria. La prima suffragetta francese, Hubertine Auclert, crea a fine secolo la Lega per le gonne corte. La libertà femminile comincia con un orlo che si alza. Finché oggi le attiviste cinesi, sulle orme delle Femen, si spogliano per chiedere leggi contro la violenza sulle donne, pubblicando online centinaia di foto di corpi senza veli.
Agire sulla cultura, come ribadiscono le femministe contemporanee, vuol dire intervenire nell’immaginario riproponendo le immagini in maniera differente, anche in modo libero e provocatorio. Sottrarle alla vista invece comporta solo amputare la libertà, di cui un nudo può essere sinonimo. Al di là del fatto che la foto di Emma Watson sia o meno l’evoluzione del vecchio “il corpo è mio e lo gestisco io”, forse l’emancipazione della donna non passa da un topless.