Quinoa global
Il cibo degli hipster bio è in realtà il simbolo che la globalizzazione funziona bene, dice l’Economist
Roma. Chi l’avrebbe mai detto che la quinoa – quel grano andino usato in insalate e hamburger vegani e venduto a prezzi spropositati nelle botique organic, bio e fair trade dei quartieri ricchi di tutto il primo mondo – sarebbe diventata un simbolo dei trionfi della globalizzazione sugli spettri del protezionismo e del chilometro zero? L’incoronazione è avvenuta ieri a opera dell’Economist, che ha dedicato alla quinoa e ai suoi fratelli, i “grani esotici”, un’accoppiata editoriale/pezzo, con questa tesi strepitosa: se noi occidentali mangiamo quinoa come mai nella storia, è la prova che la globalizzazione funziona. Ce n’è abbastanza per far andare di traverso le polpettine di quinoa e spinaci da 20 dollari l’una agli hipster di Brooklyn (o di Berlino o di Milano), per cui la globalizzazione è foreste amazzoniche bruciate e banane trasportate nelle chiatte transpacifiche, ma non certo il loro pranzo chic al bistrot.
Premessa: la quinoa è un cereale definito dai media come un “supercibo” per il suo contenuto altamente proteico e per le ottime capacità nutritive, che proprio grazie a queste caratteristiche è diventato un preferito assoluto di salutisti, vegetariani e vegani di tutto il mondo. Dal salutismo alla moda il passo è stato breve, e oggi la quinoa sembra ubiqua sugli scaffali dei supermercati e nei piatti ristoranti bio, macrobiotici e naturali, campionessa di una cultura del cibo carica di aggettivi come “tradizionale”, “salutare”, ancestrale”. Il business della quinoa è diventato immenso, la produzione è quasi quadruplicata dal 2008 a oggi, e ha favorito i coltivatori andini, in gran parte originari della Bolivia, che vivono nelle regioni dove il clima è perfetto per coltivare la pianta – benché anche questo sia stato origine di polemiche: molti dicono che la coltivazione intensiva ha distrutto i metodi antichi di coltura e privato gli andini del loro cibo tradizionale.
Ma ecco che entra in campo l’Economist, che prende a esempio il consumo di quinoa in occidente, strappa il supercibo dalla bolla hipster in cui era stato rinchiuso e scrive: “La diffusione (della quinoa) è il sintomo di un trend positivo”. Funziona così, e ovviamente non c’entra solo la quinoa: mentre noi mangiamo sempre più quinoa e riduciamo il consumo di farina, in Asia la popolazione ha iniziato a ridurre gradualmente il consumo preponderante di riso e inizia a volere prodotti di farina, pane europeo, baguette francesi e ciabatte italiane. E mentre a Singapore aprono le panetterie, in Africa i coltivatori stanno abbandonando le colture tradizionali di miglio e sorgo per darsi a varietà di riso studiate apposta per il suolo locale, con la conseguenza che la produzione è cresciuta in maniera promettente. Questo fenomeno, spiega l’Economist, è frutto della globalizzazione che fa bene il suo lavoro. La diffusione di grani esotici (che sia per noi la quinoa o la farina per gli asiatici) è “sintomo di prosperità in aumento e di possibilità di scelta in espansione”. La diffusione globale di migliori tecniche di coltivazione ha contribuito all’aumento dei raccolti e alla vendita delle eccedenze, l’urbanizzazione ha consentito ai cittadini di non coltivare più il proprio cibo ma di sperimentare nuovi modelli di cucina e di business, e il risultato sono le polpette di quinoa nei menù dei bistrot occidentali, simbolo di una globalizzazione che funziona nell’ambiente che meno di tutti vorrebbe vedersi associato al libero e fruttuoso commercio globale.
E che dire del destino delle vittime, i poveri contadini andini costretti a vendere il loro cibo tradizionale per saziare la fame di cibi esotici di noi occidentali? In realtà, gli studi dimostrano che da quando la quinoa la vendono, i contadini stanno molto meglio di prima. E con i prezzi alle stelle, hanno finalmente i soldi per potersi permettere Coca-cola e pollo fritto. Viva la globalizzazione!
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