Ronald Reagan, il conservatore non ideologico che anticipò il futuro
Il cold warrior che diventò icona americana, raccontato in un libro di Iwan Morgan
Forse la qualità migliore di Ronald Reagan come uomo e come politico sta proprio in ciò che Iwan Morgan scrive nella parte finale del suo libro – Reagan: American Icon (I. B. Tauris) – quando sottolinea che “modestia, ottimismo e fiducia nelle capacità dell’individuo”, che caratterizzarono il personaggio, si sono trasferiti, grazie a lui, dalle piccole città del midwest degli inizi del Novecento alla Casa Bianca della fine del secolo. L’“icona Reagan” è tutta qui, ci si potrebbe domandare? Eppure, queste qualità ispirarono tutta la sua azione politica sia nel campo domestico sia in quello internazionale, le qualità di un conservatore che, come afferma Morgan giustamente, incarnò tutti i caratteri del conservatorismo americano, modellandoli, tuttavia, sulla realtà del suo tempo e sulle necessità degli Stati Uniti. Il conservatorismo di Reagan fu profondamente pragmatico, a-ideologico, di estrema concretezza. Infatti, benché egli avesse affermato che “lo stato non è la soluzione, ma il problema” – frase ormai divenuta celebre – tuttavia, Reagan non si sottrasse alla necessità di un intervento dello stato centrale in talune, limitate circostanze. Comunque, la visione degli Stati Uniti che Reagan rappresentava “era profondamente radicata nella tradizione di eccezionalismo, libertà individuale e missione”.
Reagan osservò attentamente ciò che stava avvenendo nell’Unione sovietica. Astutamente, non si impegnò subito in trattative con il nemico, preferendo mantenere una posizione di intransigenza nei confronti del comunismo, benché fosse ben consapevole della crisi del blocco avversario. Era un cold warrior in piena regola, in questo proseguendo nell’atteggiamento di Nixon-Kissinger. Attese che Gorbaciov, lottando contro i suoi nemici interni, desse chiari segni di voler cambiare l’Unione sovietica, portandola in una direzione democratica non ben definita, anzi alquanto confusa.
Le incertezze ideologiche e programmatiche di Gorbaciov furono subito percepite e analizzate da Reagan come l’occasione storica per dare il colpo di grazia all’Unione sovietica. Di qui l’apertura dei negoziati con Mosca, un’apertura non richiesta da Washington, ma suggerita dall’opportunità determinata dalla crisi del comunismo. Benché Gorbaciov affermasse davanti al Politburo che i contatti con gli Stati Uniti fossero ancora incardinati sulle posizioni di due “sistemi opposti e inconciliabili”, Reagan era consapevole che le parole del leader del Cremlino fossero puramente difensive e che la realtà sovietica stesse procedendo verso la crisi definitiva.
La conduzione della politica estera di Reagan nei confronti di Mosca è solo un esempio, il più importante, della personalità del presidente americano, che riuscì a restaurare l’autorità presidenziale messa a dura prova dalle precedenti esperienze. L’opinione pubblica americana, anche quella che non lo aveva votato, dimostrò nel tempo di gradire l’azione del “presidente imperiale”, come lo definisce Morgan. Il taglio delle tasse, la diminuzione della disoccupazione, l’interventismo centrale ridotto al minimo, ma nello stesso tempo l’autorevolezza del suo rapporto con la gente fecero di Reagan “il presidente conservatore di maggiore successo nella storia americana”. Disse alla Convenzione nazionale repubblicana nel 1992: “Siamo il paese del futuro. La nostra rivoluzione non è terminata a Yorktown. Più di due secoli più tardi, l’America rimane in viaggio, una terra che non si è mai fermata, ma è sempre pronta a un nuovo inizio”.
Il nuovo inizio fu il superamento della recessione che aveva duramente colpito gli americani negli anni precedenti grazie al raggiungimento di un’inflazione che permise stabili condizioni per gli investimenti e una politica di deregolamentazione che diede vitalità e slancio all’iniziativa economica, un insieme di iniziative di successo che, sul piano politico, ridette fiducia al Partito repubblicano portandolo a una “parità virtuale” nei confronti del Partito democratico, come si sarebbe visto negli anni successivi a quelli di Reagan. “Grazie a lui, le idee conservatrici – scrive Morgan – furono apprezzate dagli elettori, senza che l’America divenisse una nazione conservatrice”. Reagan ruppe lo stereotipo del conservatore nostalgico del passato perché – conclude Morgan – “fu in realtà un uomo del futuro, convinto com’era che le vecchie verità fossero ancora nuove in quanto in grado di spingere un popolo libero verso sempre più grandi conquiste”.