I fantasmi del sud
Dove da secoli i morti appaiono, parlano, gli si risponde. Pazzia sottile, presenza accettata. Perché vengono dal “mundu d’a verità”
Pubblichiamo un estratto dell’articolo di Bruno Giurato in uscita sul numero 77 di Nuovi Argomenti, gennaio-marzo 2017.
Qui a sud, e non solo a sud, ma in tutta la cultura popolare, da secoli i morti appaiono, parlano, gli si risponde. Sono una pazzia sottile, forse, ma non sembrano usciti da Le Fanu o da qualche più o meno stupido Ottocento. Perché non sono fantasmi, immagini fosforescenti su sfondo perturbante: manca l’aura fantasy o noir, borghese, da colazione al mattino dopo in abito bianco e occhiaie di languor. Manca l’entertainment, il sublime, quindi il gusto di intrattenersi coi fantasmi. Manca anche il confronto con il pensiero razionale, che di-verte e ossessiona l’immaginazione nell’altra direzione, quella del Lato Oscuro: non è un caso se racconti e romanzi di fantasmi hanno spesso come contrappeso l’atteggiamento “scientifico” dell’indagatore dell’incubo, gli appunti, le prove.
Qui invece ci sono episodi di mogli appena morte che appaiono in sogno al marito per indicare lo stipo in cui si trovano i documenti di casa. Dove non c’è tempo liberato per intrattenersi e ossessionarsi semplicemente sono lì, liberi. In giro, i morti. Socialmente accettati. Ed è un fatto socialmente accettato: il reale in quanto irreale è reale. Da qui l’invasione degli spiriti a sud.
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Nella cultura popolare del meridione d’Italia (ma non solo) la presenza del morto è un’articolazione dell’abitare. Di un defunto di famiglia, o di un compaesano. O di un santo, che a differenza di un angelo ha avuto una vita terrena, ed è, tecnicamente, un morto.
Spesso c’è di mezzo il corpo. Oltre alle reliquie dei santi ufficiali come padre Pio o san Gennaro, ci sono gli spiriti del Purgatorio
I morti ritornano, e spesso c’è di mezzo il corpo: vedi la trama di culti legati ai corpi dei morti. Oltre alle reliquie dei santi ufficiali come padre Pio o san Gennaro, c’è un giro di personaggi equivoci, che, a volontà di popolo ma non di gerarchia, stanno tra il defunto e il santo unofficial.
Sono gli spiriti del Purgatorio. Testimoniano ancora una volta la tendenza del mondo immateriale a infilarsi in quello materiale e viceversa. Danno origine a scambi rituali, svolti in tempi e in modi regolati, tra naturale e sovrannaturale.
I posti sono, per esempio, il cimitero delle Fontanelle a Napoli, la chiesa di San Pietro ad Aram, la chiesa di Santa Maria delle anime del Purgatorio ad Arco, e sono solo i più famosi. Le pratiche consistono nell’adozione di ossa, o del teschio di un morto, da curare e pulire, da mettere in una teca o in una scatola di latta, per cui pregare a “a refrische ’e ll’anime d’o priatorio”, a rinfresco delle anime del Purgatorio come si dice lì. In cambio si chiedono grazie.
A Torre Annunziata è diffuso il culto della Sposa Bianca “una donna sconosciuta morta nel 1939 in un incidente ferroviario, che aveva con sé una valigia contenente un abito da sposa, con il quale fu sepolta. Esumato dopo qualche anno, il corpo fu trovato miracolosamente intatto e divenne oggetto di venerazione. Non si tratta di una santa, ma di una donna morta di morte violenta”. Il culto lo si trova raccontato ne Nel corpo della tradizione. Cultura popolare e modernità nel Mezzogiorno d’Italia, di Giovanni Vacca (Squilibri editore, 2004), in cui si spiega tra l’altro che lo stare e il muoversi in quella zona liminare tra spirito e cose, non si risolve nei termini dell’immagine (come per il classico fantasma), ma richiede una identificazione, appunto, corporea.
Anime che si possono presentare sotto le sembianze di una pecora, di un cane, di un leone, oltre che personalmente
Ed esistono le possessioni, naturalmente. Nella parte meridionale della provincia di Reggio Calabria gli anziani raccomandavano ai ragazzi in giro in campagna di non spaventarsi. La caduta di una catasta di legna può essere lo scherzo di un “maluspiritu”, che approfitta dello spavento per entrare nel corpo della vittima. “S’incuòrpora”. Seguiva preghiera di scongiuro. Lo spirito poteva uscire fuori dalla bocca del posseduto, ma qualcuno ha raccontato una fuga attraverso l’alluce.
La contadina Mica Cozzucoli di San Lorenzo (Reggio Calabria) raccontava che le anime dei “mari morti” (poveri morti) si possono presentare sotto le sembianze di una pecora, di un cane, di un leone, oltre che personalmente. In tutta quell’area fino a qualche decennio fa Le vacche sono le anime del Purgatorio. Come da titolo di un piccolo, prezioso, e quasi introvabile, libro di Valentino Santagati (Iriti, 2000). Proprio lì si racconta di un contadino che aveva molta familiarità coi morti, soprannominato “Mamuni”, che nei pomeriggi fermi e bollenti di luglio andava a fare la siesta raccomandando a bassa voce a qualcuno di stare buono. Qualcuno di invisibile. In tutta quella zona il mondo dei morti si chiama “mundu d’a verità”. Il mondo della verità.
Una verità irreale (per noi che abbiamo i fantasmi fosforescenti), eppure perfettamente vera. Un reale invaso di spiriti, a sud, placidamente attestato da antropologia e quotidianità.
Ci si può chiedere cosa succede dal lato della rappresentazione artistica. Un passepartout per questo realismo magico, niente sudamericano, tutto mediterraneo, lo dà sempre Mica Cozzucoli (che era tra l’altro una grandissima cantante: una volta Fabrizio De Andrè, ascoltando una sua registrazione disse alla musicologa Caterina Bueno: “Se io sapessi cantare così me ne fregherei di fare il cantautore”). Mica considerava la raccolta delle olive reale esattamente come i “rrumanzi” (le fiabe) che le raccontava la nonna, ad esempio quella del gatto cantante e suonatore di tamburello. Secondo lei le fiabe non sono affatto prodotto di fantasia ma “sunnu a verità”. Sono la verità.
“Mi sentii maniare da dietro… mi passò per la mente che a pigliarsi piacere con me non fosse un cristiano, ma fosse lo stesso Scilla”
Il reale colonizzato dagli spiriti corrisponde a forme artistiche colonizzate da una dimensione di irrealtà (vera), che le forza e le fa esplodere. Ci si avvicina, per analogia, ad avanguardia e sperimentalismo. In effetti si può arrivare a risultati che assomigliano ai frutti dell’avanguardia, ma la radice è diversa. Non si tratta (come in tanto fare artistico europeo) per dirla con l’antico e meraviglioso György Lukács, dal “distacco dell’anima e delle forme”. Non c’è più la messa in questione delle forme di rappresentazione classica attraverso un distanziamento ironico, riflessivo, di pensiero. Non c’è il dire una cosa e al contempo prenderne le distanze, smentirla, prenderla in giro. Al contrario: anche il surreale o l’irreale “è la verità”.
Quelle popolari sono forme di rappresentazione nate già eccentriche, capricciose, mosse da un qualche Poltergeist, o dato il contesto lo si potrebbe chiamare “munaciello”, il fantasma dispettoso della tradizione napoletana. La non distinzione tra realtà fisica e spirituale (o spiritica) si traduce, dal punto di vista formale, in un anti realismo.
Un esempio. Per Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo si è parlato spesso di espressionismo e di postmoderno. Ma le 1082 pagine (edizione Rizzoli), fatte sì di Joyce, di Conrad, di Melville e di tutta la letteratura marinara dal libro di Giona a Omero in poi, gridano ovunque un potente antirealismo popolare, o “primitivo”. Lasciamo pure stare il lessico di cui tanto si è scritto, che è solo l’epifenomeno. L’episodio del “tribolo”, nella prima parte del libro, non è altro che un planctus di alcuni morti da parte delle “femminote”. Ci sono tutti gli elementi descritti dalla letteratura antropologica, dall’Ernesto De Martino di Morte e pianto rituale in poi. Quelle che nel romanzo vengono chiamate le “femminote” sono nella realtà le “bagnaròte”, donne di Bagnara, considerate le più brave “ciangitrici” (prefiche) della provincia di Reggio Calabria. Una formula della zona recita “chimmu ti ciangianu i bagnaroti”, ti piangessero le bagnaròte. Non è un bell’augurio.
La scintilla magica dell’arte napoletana. Dalle metafore di Marotta all’approdo fantasy del “Racconto dei racconti”
E c’è il rievocare episodi della vita dei defunti: “Il discorso scese, scese, scavò, scavò, riaprì la piaga sinché, anche questo era fatale, dal discorso a conversario che era parlare accademico del più e del meno, sconfinò a tribolo, al parlare a singhiozzo, con scatti di voce oppure silenzi, gridi oppure sospiri”.
Solo che i defunti (i fantasmi?) di cui si piange e racconta sono i “ferribò”, i traghetti. I traghetti Reggio-Messina affondati a causa dei bombardamenti durante la Seconda guerra mondiale. Donne riunite intorno ai fantasmi dei traghetti. Una che racconta di aver avuto un rapporto sessuale con uno dei traghetti. O meglio con un uomo, rimasto senza volto e senza nome, che alla fine avrebbe potuto essere lo stesso ferribò, o il suo spirito. “A un certo punto mi sentii maniàre da dietro, con tanto garbo di mano, tatto e galanteria, che non mi faccio scrupolo a dirvi, issofatto benvolonté accondiscesi, muto lui e muta io al punto che mi passò per la mente che, a pigliarsi piacere con me non fosse un cristiano, ma fosse lo stesso Scilla”.
Pianto rituale, morti, fantasmi, trasmutazione dell’oggetto in uomo o in spirito. Confusione di realtà e irrealtà, cose e simboli. Horcynus Orca, tutta, prima che libro espressionista o postmoderno è una enciclopedia di antirealismo popolare fondata su una simbologia magica.
La scena in cui un traghetto caricato di arance si rovescia in mare e si vede lo stretto di Messina invaso di agrumi è magrittiana o surrealista solo per tangenza. E’ invece innanzitutto l’ultimo dono dello spirito del ferribò morto: “un mare aranciato”.
E oltre ai morti ci sono i santi. Morti anche loro (si accennava prima), e in grado di ridefinire le categorie culturali, sociologiche, economiche di tutta la cristianità a partire dalla diffusione del loro culto (il grande classico a riguardo è Il culto dei santi, di Peter Brown). E se si parla di santi, sud, e distorsione delle forme rappresentative, si arriva subito a Carmelo Bene.
I due schermi, di cui uno sul soffitto, che sarebbero stati necessari per proiettare il suo film su Giuseppe Desa da Copertino, intitolato A boccaperta, rimasto per problemi finanziari allo stato di sceneggiatura, non sarebbero stati eccentricità rappresentativa, ma semplicemente quello che serve per mettere il pubblico di fronte alla realtà della levitazione del Santo, “illetterato et idiota”, dalle “mani di burro”, sbavante. E volante.
Una realtà “invasa” da antirealismo, dal “miracolo” che, come da monologo di Nostra Signora dei Turchi, inverte la soggettività. Da questo vicolo a sud non si riesce a non sospettare, fosse anche solo per economia interpretativa, che l’opera di Carmelo Bene, tutta la sua distruzione delle forme teatrali borghesi, del ruolo del testo, dell’impostazione vocale attoriale, sia un ritorno complessivo a un antirealismo originario. Non fuga in avanti, ma arcaismo (mistico) al rientro.
Visto dall’Europa, in particolare dalla post-fenomenologia francese, Bene è un distruttore delle forme della rappresentazione, e quindi un avventuriero dell’ontologia proiettato verso il nulla.
Visto da qui, da giù, giusto dal “Sud del sud dei santi”, è un lealista del sacro, che vuole ripristinare un dire e un fare originario (quindi invaso di spirito, se non di spiriti) sulle macerie delle forme teatrali naturalistiche. Una teologo negativo della rappresentazione.
O prendiamo un insospettabile, nobile, fatto tutto di cultura alta come Giuseppe Tomasi di Lampedusa. La sua Sirena non è una parabola di magia? Anche in Lighea troviamo quella bizzarra inversione delle categorie di realtà, svolta dal punto di vista astratto di un grecista che alla fine di una vita sdegnosa si salva ributtandosi tra le braccia della sirena per non morire mai. E infatti non muore. Scompare solo. Ma c’è.
Poi la scintilla magica dell’arte napoletana, dalle metafore di Giuseppe Marotta, alla sospetta alchimia del Cristo velato di Giuseppe Sanmartino, all’approdo fantasy del Racconto dei racconti di Matteo Garrone (già superato dal libro d’origine, Lu Cuntu de li cunti di Giovanbattista Basile) alla Gatta Cenerentola di Peppe Barra è un dato acquisito. Meglio chiudere con un pezzo di legno vivo. La trasformazione dell’uomo in oggetto è un’attrazione da fiera arrivata sui palchi di avanspettacolo, anche, con Franco Franchi (famosa la sua scenetta con Ciccio Ingrassia, in cui faceva la bilancia) e portata alla notorietà pre-pop da Antonio De Curtis. Fa meraviglia l’uomo che disarticola braccia e gambe, e rotea gli occhi in una parodia della macchina. Ma il sottotraccia che desta la meraviglia più grande è l’ opposto: la marionetta, l’oggetto è davvero un oggetto; il vero antirealismo è che la marionetta abbia occhi umani. Invasa da uno spirito.
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E quindi, siano spiriti, santi, anime del purgatorio, ci si ritrova a pensare che il vero guaio, contrariamente a quello che ne scriveva Pasolini, non è tanto la scomparsa delle lucciole. Il vero guaio è la scomparsa dei culti, le credenze, la realtà irreale legata ai defunti.
Il vero guaio è la morte dei morti.
Morti i morti (cioè già bruciate in partenza le condizioni minime di inverosimiglianza che permettano lo scambio miracolato tra reale e irreale), resteranno al massimo i fantasmi, col loro babau da spavento-intrattenimento e il loro vampirismo al sangue. Roba esangue.