Manifesto per la sopravvivenza dello stato democratico
Per evitare di cadere vittime dei nuovi fanatismi, è necessario che lo spirito moderno si riconcili con le condizioni greche ed ebraico-cristiane che l’hanno reso possibile
Anche per l’uso dispotico e intollerante che se ne è fatto in passato, la parola verità è di quelle che suscitano reazioni emotive piuttosto sfavorevoli. Il discredito che sembra avvolgerla è così diffuso, che perfino coloro che non hanno ancora rinunciato a riferirsi a essa, la usano con titubanza, imbarazzo, quasi che se ne debbano in qualche modo vergognare. Siamo ormai nell’epoca della post truth, nell’epoca del relativismo, della pluralità, della libertà, non della verità. Quest’ultima non sembra più compatibile con lo spirito di una società secolare, quale è quella in cui viviamo. Invece ritengo che pluralismo e libertà, ben lungi dal rappresentare un’antitesi alla verità, esprimono il naturale contesto socio-culturale entro il quale la verità è chiamata oggi a proporsi. Potremmo dire che persino il relativismo, se con esso si intende la semplice consapevolezza della “relatività” e quindi della non esaustività dei punti di vista rispetto alla ricchezza della realtà, è pienamente compatibile con l’idea di verità. D’altra parte, chi sarebbe così relativista da pensare che tutte le opinioni e tutti i punti di vista valgano allo stesso modo?
Per la cultura secolare conta soltanto la ragione debole di chi pensa che ormai siano possibili innumerevoli "giochi linguistici"
In realtà, più o meno esplicitamente, quando avviamo una qualsiasi discussione, presupponiamo sempre la presenza di un criterio di validità dei nostri discorsi che non sia arbitrario. La inevitabile pluralità dei punti di vista non implica affatto che essi siano tutti ugualmente veri. Ciononostante, abbiamo timore che la verità possa diventare una sorta di cavallo di troia del dispotismo e della coercizione. Perché? Su questo punto pesa evidentemente la storia. Per troppo tempo la verità è stata ostaggio di una sorta di ipoteca totalizzante (di tipo religioso, ma non solo), in virtù della quale dalle verità più banali, tipo “la neve è bianca”, si arrivava a proclamare con la stessa sicurezza anche la verità delle norme morali e politiche o addirittura la verità dell’intero universo. Morale, politica, cosmologia, tutto doveva sottostare alla verità, la quale, se necessario, non solo veniva imposta con la forza, ma lo si faceva persino con la convinzione che questo servisse al bene degli interessati. Di conseguenza è un po’ come se oggi scontassimo questo dispotismo. La verità ci incute timore; la percepiamo come un pericolo per la nostra libertà. Per essere veramente liberali e democratici, riteniamo di dover agire come se la verità non ci fosse (etsi veritas non daretur); per la cultura secolare in generale conta soltanto la ragione debole di chi pensa che ormai siano possibili innumerevoli “giochi linguistici” e nulla più. Ma per quanto questo atteggiamento abbia qualche comprensibile ragione, non sarà certo con un relativismo ostile alla verità che verremo a capo dei molti problemi con i quali la nostra epoca deve fare i conti. Ce ne rendiamo conto soprattutto quando, come sta succedendo sempre più spesso, il dibattito pubblico si fa incandescente e l’uso della menzogna diventa la regola.
Manifestanti con la maschera di Anonymous davanti al Big Ben di Londra (LaPresse)
Ben lungi dal rappresentare una gabbia per l’autonomia e la libertà degli individui, proprio la verità, a mio avviso, può esserci d’aiuto per dare il giusto senso alle nostre scelte e alla stessa dialettica democratica. E’ quasi stucchevole trovarsi a discutere di tutto, anche di questioni di vita e di morte, senza la fiducia che esistano argomenti più validi di altri – più validi perché più vicini alla realtà delle cose, non certo perché condivisi da un maggior numero di persone o perché “creduti” in base a una qualsiasi fede. E credo che sia proprio questa mancanza di fiducia nella verità la causa “prima”, anche se non molto “prossima”, di gran parte dei problemi che gravano sulla nostra cultura e sulle nostre istituzioni politiche.
Per il fatto di vivere in un contesto socio-culturale contrassegnato dalla presenza di diverse opinioni in ordine a ciò che è vero e giusto e di prendere quindi le nostre decisioni politiche a maggioranza, ci siamo erroneamente convinti che un’opinione valga l’altra; siamo diventati relativisti, con la convinzione che questo fosse il modo migliore per essere tolleranti. Ma questo significa soltanto mettere una cattiva filosofia alla base di una pratica eccellente che, alla lunga, potrebbe uscirne gravemente danneggiata. Le nostre decisioni politiche, ad esempio, vengono prese a maggioranza, non perché la verità non esiste, ma semplicemente perché, grazie a una certa idea che abbiamo dell’uomo e della sua incommensurabile dignità, è molto meglio una decisione sbagliata, presa con il consenso della maggioranza, che una decisione giusta imposta con la forza. Altro che relativismo.
Quando affermiamo una qualsiasi verità, da quelle più semplici, tipo “la neve è bianca”, a quelle più complesse, tipo “Roberto è un vero amico”, non lo facciamo con la riserva mentale che ciò che affermiamo potrebbe anche non essere vero o che sia vero semplicemente perché ne siamo convinti. Piuttosto ne siamo convinti perché è vero, perché appunto constatiamo che la neve è bianca e che Roberto è un vero amico. Ovviamente l’oggetto dei nostri discorsi è spesso così intricato da rendere possibili soltanto verità ”parziali”, “prospettiche”, addirittura tra di loro incompatibili, come quando diciamo con buoni argomenti che la guerra è una sciagura e qualcun altro, con argomenti altrettanto buoni, cerca invece di convincerci che è servita a evitare danni peggiori. Ma questo nulla toglie alla verità. Anzi è proprio in questi casi che più ne avvertiamo l’importanza. E’ precisamente la coscienza della parzialità dei nostri discorsi a richiedere disponibilità al dialogo, alla comprensione reciproca, alla tolleranza, nella speranza che questa disponibilità ci avvicini ancora di più alla verità. Senza questa fiducia in una verità che in ultimo, con maggiore o minore evidenza, ci si rivela, della quale non siamo padroni, nemmeno i nostri grandi valori politici avrebbero consistenza. Pluralismo, tolleranza, principio di maggioranza, l’idea stessa di stato di diritto e di democrazia finirebbero inevitabilmente per confondersi con la demagogia e la lotta per il potere fine a se stesso.
Tutti siamo più o meno d’accordo sul fatto che la democrazia secolare coincide con lo spazio pubblico democratico entro cui tutti i cittadini, indistintamente, si scambiano i loro argomenti, fanno valere le loro pretese di validità e attivano procedure consensuali di decisione. Ciò che conta è la reciproca persuasione e la leale osservanza delle procedure. Ma non possiamo nasconderci i problemi che vengono fuori quando ci avviciniamo un po’ di più agli elementi che compongono tale idea di democrazia: la validità degli argomenti, la reciproca persuasione, le procedure consensuali di decisione. Si tratta infatti di elementi che non appartengono al medesimo ambito categoriale, né si combinano automaticamente in modo democratico; per farlo hanno bisogno di un ethos particolare che li ispiri e ne regoli la specialissima combinazione. A questo proposito vorrei ribadire alcune importanti ovvietà.
Senza fiducia in una verità che in ultimo ci si rivela, nemmeno i nostri grandi valori politici avrebbero consistenza
Non saremmo in una democrazia se la cogenza delle leggi venisse dedotta meccanicamente dalla validità degli argomenti in loro sostegno. D’altra parte una democrazia non può essere nemmeno indifferente alla bontà o meno dei suoi argomenti, diciamo pure, alla giustezza delle sue leggi, altrimenti la persuasione rischierebbe di diventare una questione puramente demagogica. A ogni buon conto, allorché si tratta di rendere una norma vincolante per tutti, democraticamente, non si può mai pretendere che la validità di un argomento sia più importante del numero delle persone che lo condividono. Non si può imporre alcuna norma contro la volontà della maggioranza. Ma questo non significa, ovviamente, che la maggioranza sia, in quanto tale, sempre nel giusto; significa semplicemente che, finché si vuol restare in una democrazia, nessuno può arrogarsi il diritto di imporre ciò che è giusto contro la volontà della maggioranza. Una democrazia è tanto più autentica, quanto più riesce a tener vivo il senso di questa dialettica tra la validità degli argomenti e le procedure in virtù di cui essi diventano socialmente vincolanti per tutti, anche per coloro che non li condividono. Proprio per questo essa ha bisogno di un determinato ethos diffuso tra i cittadini, di determinate convinzioni comuni circa la dignità e la libertà delle persone, di determinate virtù civiche, quali la fiducia (come accettare altrimenti il verdetto della maggioranza?), il senso del proprio dovere e altro ancora. Ma proprio qui sta il punto. Tanto più esiste infatti questo ethos condiviso, questo consenso diffuso su alcuni valori di fondo, e tanto più la vita democratica sarà incentrata sulle procedure consensuali di decisione. Questo non perché la validità degli argomenti addotti nelle discussioni politiche non abbia importanza, ma soltanto perché, essendo tutti più o meno consapevoli della legittima pluralità delle posizioni, riteniamo che la decisione a maggioranza sia la procedura più adeguata a gestire tale pluralismo. La maggioranza vince; e vince in un contesto tale per cui, anche chi perde ne accetta di buon grado le decisioni. Detto in altre parole, in una democrazia ben funzionante la legittimità di una decisione e più importante della sua oggettiva validità, proprio perché esiste una sorta di consenso implicito su alcune questioni che nessuno si sogna nemmeno di discutere.
Un manifestante contro la fallita riforma sanitaria proposta da Donald Trump (LaPresse)
La situazione cambia radicalmente nel momento questo ethos comune si indebolisce, fin quasi a dissolversi del tutto, e la comunità politica si trova per giunta ad affrontare questioni sempre più divisive: l’aborto, gli immigrati, la lotta al terrorismo. In questi casi il dibattito pubblico sembra trasformarsi davvero in una sorta di “guerra civile condotta con altri mezzi”, come ebbe a dire MacIntyre trentacinque anni fa. La democrazia si inceppa; la semplice conta dei voti non è più sufficiente; maggioranza e minoranza tendono a delegittimarsi reciprocamente; in una parola, anche le decisioni formalmente legittime tendono ad essere screditate in nome di un principio di validità, che non riconosce più nessuna ragione all’avversario politico. I discorsi si fanno incommensurabili tra di loro e la presunta validità intrinseca di una decisione diventa molto più importante della sua legittimità.
Tutto questo in tempi normali non accade. Ma oggi è questo che sta accadendo nella politica di molti paesi occidentali; con l’aggravante di un contesto culturale che, essendosi disinteressato per tanto tempo dei criteri di validità dei nostri discorsi, sembra sempre più esposto al rischio del fanatismo e della menzogna o della verità usata come una menzogna (è possibile!).
La pratica democratica non può certo pretendere di dedurre dalla verità di un argomento il fatto che esso venga anche condiviso; la validità degli argomenti conta finché si discute; quando si tratta di “decidere”, in presenza di una divergenza di opinioni, si contano le mani e la maggioranza vince. Alla fin fine, sono convinto anch’io che quest’ultima procedura sia la più preziosa in democrazia. Come vado dicendo ormai da molti anni, è molto meglio un errore condiviso almeno dalla maggioran0za degli interessati che una verità imposta con la forza. Sarebbe tuttavia un errore ritenere che per questo il cittadino ideale di una democrazia secolare debba essere colui che sa fare un uso scettico della ragione, mettendo tra parentesi le proprie convinzioni di verità. Tanto più le questioni sono spinose e tanto più occorre ragionarci sopra con la radicalità, la competenza e la responsabilità che esse meritano. E bisogna farlo con la fiducia che certi argomenti siano migliori di altri semplicemente perché più adeguati alla “cosa stessa”, come direbbe Aristotele.
Proprio a questo livello, detto un po’ provocatoriamente, vedo apparire l’importante funzione civile della religione in una società pluralista e complessa come la nostra. Una religione che sappia mantenere viva l’istanza della verità, rinunciando alla pretesa di imporla (oggi, per fortuna di tutti, almeno in occidente, non potrebbe farlo neanche a volerlo), può costituire un pungolo prezioso per la nostra cultura politica, un modo di metterla in guardia da certe sue pretese totalizzanti. Come in parte ho già accennato, è fuori discussione che la verità religiosa sia stata utilizzata in passato e venga utilizzata ancora oggi come uno strumento di dominio sui popoli e sugli individui. Il processo di secolarizzazione occidentale ha rappresentato in questo senso un’importante opportunità, non fosse altro per l’autonomia che ha prodotto tra la religione e gli altri sistemi sociali, in particolare proprio la politica e la scienza.
Tuttavia non possiamo non vedere come questo processo tenda oggi a riprodurre dentro i sistemi sociali che si sono poco a poco emancipati dalla religione le stesse istanze di assolutezza che un tempo erano proprie della religione. Quante volte sentiamo dire che scienza e politica non ammettono ingerenze di sorta da parte di altri sistemi sociali? Se ci pensiamo bene, sembra che la secolarizzazione sia diventata una sorta di continuazione della religione con altri mezzi.
Il dibattito pubblico sembra trasformarsi in una sorta di "guerra civile condotta con altri mezzi", come disse MacIntyre
E’ dunque necessario un nuovo incontro tra Illuminismo e religione. Lo scontro avvantaggia soltanto i secolaristi e i clericali più radicali. Entrambi ritengono, non a caso, che ci sia una netta antitesi tra modernità e tradizione religiosa, tra Illuminismo e Cristianesimo, finendo entrambi per cadere in una pericolosa sacralizzazione (o risacralizzazione) della politica. Ma per fortuna all’orizzonte si profila anche una sensibilità nuova, una nuova attenzione nei riguardi delle grandi tradizioni metafisico-religiose sulle quali il nostro occidente, la nostra modernità occidentale si sono sviluppati. Come dimostra in modo significativo proprio la linea che il Foglio ha cercato di far valere in questi anni, dando voce a quanti in Europa non accettano il radicalismo secolare né il clericalismo, ci sono segnali che vanno chiaramente verso quella che definirei una modernità un po’ più riflessiva.
In un’epoca come la nostra, nella quale, un po’ come ai tempi dei conflitti confessionali susseguitisi alla Riforma, torna a farsi sentire il problema della convivenza tra diverse culture e diverse confessioni religiose, abbiamo bisogno di una cultura e di istituzioni politiche che garantiscano la pluralità delle idee, la libera competizione per il potere, il suo esercizio non ideologico e la possibilità che venga revocato attraverso mezzi pacifici e costituzionale. Abbiamo bisogno di uno stato secolare che sia capace di garantire, politicamente e giuridicamente, la pacifica coesistenza di cittadini di diversa appartenenza religiosa e confessionale. E tutto questo nella consapevolezza che il pluralismo è un valore fondamentale, non soltanto per la politica, ma anche per la religione. E’ un grave errore pensare che il pluralismo rappresenti un pericolo per la religione, per la stabilità della vita individuale, delle relazioni sociali o delle istituzioni politiche. Lo può diventare, certo, e di fatto sembra esserlo anche diventato. Ma la frammentazione soggettivistica e relativistica che oggi sperimentiamo non va considerata come una sorta di esito necessario del pluralismo, quasi che il pluralismo distrugga qualsiasi universalità o qualsiasi elemento comune a tutti gli uomini. La contingenza del mondo nel quale viviamo fa del pluralismo una sorta di condizione imprescindibile. Ma questo non significa che l’universale non abbia più diritto di cittadinanza; significa semplicemente che non è più consentito nemmeno a ciò che è universale di diventare vincolante per tutti, contro la volontà dei diretti interessati. Il grande valore del pluralismo sta in fondo in questa nuova situazione che si è andata poco a poco delineando, al centro della quale, se ci pensiamo bene, sta l’universale dignità dell’uomo e della sua libertà, non certo la vulgata relativista che tende a mettere tutte le scelte e tutti i valori sullo stesso piano.
Un manifestante inglese a favore del Remain e contro la Brexit (LaPresse)
Per questo il pluralismo è un valore che va difeso con la stessa veemenza con la quale difendiamo altri valori. Pluralismo, tolleranza, spirito di verità, convinzioni profonde non sono insomma concetti antitetici, ma complementari, ed è in questa complementarietà che, tra le altre cose, si incontrano e si arricchiscono reciprocamente le migliori tradizioni antiche e moderne, guadagnandone entrambe in “riflessività”. Mi spiego.
Un certo pluralismo religioso è esistito pressoché da sempre nel nostro mondo occidentale. L’epoca moderna lo ha sicuramente accentuato, costringendo sempre di più la religione a uscire da quei gusci dogmatici che si erano costituiti anche su materie che non hanno nulla a che fare con i dogmi della fede. Potremmo esprimere lo stesso concetto, dicendo che con l’epoca moderna il confronto con l’altro diventa una sorta di necessità, al punto che la stabilità del proprio io, delle relazioni sociali, delle istituzioni religiose o delle istituzioni politiche dipende sempre di più dalla capacità di problematizzare le proprie convinzioni e la propria identità, dunque di riflettere su se stessi, di prendere un po’ le distanze da se stessi. Ma la modernità divenuta dominante, la stessa che oggi è in grave crisi, interpreta tutto questo in senso relativistico, come se tutte le convinzioni siano da mettere sullo stesso piano. E questo è un po’ l’errore che, da un lato, la consegna alla sua deriva nichilista, dall’altro rilancia la tradizione giudaico-cristiana come una prospettiva capace di impedire questa deriva, valorizzando un pluralismo, se così posso dire, amico della verità.
Non sarà con un relativismo ostile alla verità che verremo a capo dei problemi con i quali la nostra epoca deve fare i conti
Le religioni, come è noto, esprimono in genere una totalità di significato e meritano tutte di essere rispettate. Ma questo non vuol dire che valgano tutte allo stesso modo. In quanto sistemi socio-culturali e istituzionali complessi, esse sono capaci di adattamento, di apprendimento e anche di autocorrezione. Tuttavia, nel momento in cui entrano in contatto o addirittura in conflitto tra di loro, anche le religioni debbono sottoporsi a una sorta di banco di prova che le costringa in un certo senso ad uscire dalla loro autoreferenzialità, ad accettarsi come articolazioni di una universale “umanità”, che deve costituire la base di ogni confronto. E’ nell’uomo il vero fondamento della pluralità delle religioni e delle culture; ed è il rispetto della dignità dell’uomo il vero banco di prova di ogni religione e ogni cultura, come pure di ogni libertà religiosa. E sebbene si tratti di un’idea sviluppatasi in occidente grazie soprattutto alla religione cristiana, è pur vero che su questa base si può parlare a tutte le confessioni senza che questo appaia come una forma di omologazione religiosa. Direi pertanto che far valere nella vita civile questa idea di dignità come patrimonio universale non negoziabile e fondamento del nostro pluralismo rappresenti oggi un’altra importante funzione della società secolare.
Quarantacinque anni orsono, Arnold Gehlen scriveva che avremmo ricominciato a “prendere sul serio la religione”, quando questa avrebbe riacquistato forza sufficiente per dar vita a “fronti disposti a combattere”. L’affermazione sembrerebbe quasi profetica, vista la violenza terroristica ispirata a motivi religiosi che in questi ultimi anni ha fatto irruzione nel nostro mondo. Eppure, senza chiudere gli occhi innanzi ai terribili attentati che dall’inizio del secolo XXI hanno sconvolto e stanno sconvolgendo la vita di diverse nazioni, non possiamo permetterci di assecondare la logica della guerra di religione o dello scontro di civiltà. “Non agire secondo ragione, non agire con il logos, è contrario alla natura di Dio”, ci ha ricordato Benedetto XVI nel suo discorso all’Università di Regensburg. “Nel profondo”, qui si tratta davvero “dell’incontro tra fede e ragione, tra autentico illuminismo e religione”. Ed è da questo incontro che soltanto può scaturire un vero dialogo tra le culture e le religioni.
Detto in modo sintetico, credo che abbiamo bisogno di riconciliare la coscienza moderna con la coscienza religiosa. Abbiamo bisogno di una cultura secolare, che, in quanto coscienza critica della moderna differenziazione di religione e politica, fede e ragione, riesce ancora a tener fermi sia il peso della religione in ordine a ciò che le diverse culture chiamano ragione, sia l’idea di verità come orizzonte del discorso razionale. La fiducia nella possibilità che la ragione abbia a che fare con la verità, con qualcosa che vale di per sé, a prescindere dal fatto che venga o meno riconosciuto, non è un pericolo per la società secolare; rappresenta piuttosto uno dei presupposti fondamentali per una adeguata comprensione della sua liberalità, del suo pluralismo e della cultura che sta alla base delle sue istituzioni politiche. Come aveva intuito Nietzsche, l’Illuminismo vive soprattutto del pathos per la verità e, se viene meno questo pathos, rischia di venir meno anche l’Illuminismo.
Riassumendo, prima di concludere, credo che i grandi problemi che abbiamo di fronte implicano tutti la riconciliazione, se così si può dire, di alcune polarità che un certo pensiero moderno ha finito per estraniare: religione e politica, fede e ragione. La mia idea è che la società secolare riesca a impedire che la politica si faccia religione, che la dialettica politica si riduca esclusivamente a un gioco di “opinioni”, che la stessa libertà diventi indifferente e si possa cadere vittime di nuovi fanatismi, solo a condizione che un certo spirito moderno e illuministico sappia riconciliarsi con le condizioni greche e ebraico-cristiane che l’hanno reso possibile. Fortunatamente le nostre istituzioni politiche risentono ancora del loro ethos giudaico-cristiano e secolare, nonostante che questo ethos sembri essersi quasi essiccato nel cuore e nella testa della maggior parte dei cittadini. Si pensi, ad esempio, al discredito della verità. Ma è assai difficile che questo stato di cose possa durare all’infinito. Quando si dice, come oggi viene ripetuto spesso con riferimento a Wolfgang Boeckenfoerde, che uno stato secolare, liberale e democratico, vive di presupposti che da solo non è in grado di garantire, si intende anche mettere in guardia dalla pretesa che esso possa sopravvivere eliminando i suoi presupposti culturali o sfruttandoli come una sorta di rendita parassitaria. E questo mi sembra un monito importante per la modernità occidentale.