Idiozia: il giornalismo da sveltina che si spaccia per contropotere
Ecco il cretino collettivo, antipotere dei bassifondi che cerca di darsi una vernice di rispettabile ideologia politica e civile
Uno vede il Fatto e dice: però, questi sono coraggiosi ed esercitano la critica del potere. Vede la Verità e dice, accipicchia che fegato, pure questi fanno critica del potere, e sono così forti che possono anche permettersi di omettere informazioni sullo statuto proprietario del giornale. Uno ripensa a Repubblica, quando Scalfari si dava da solo di contropotere, vanità perdonabile a un colosso del settore vanità & affini, e si dice: che bel mestiere è sempre stato ed è andare allegramente contro il potere. Uno allora si trasferisce in Francia, dove spera gli sia lecito leccare il culo ai potenti con particolare voluttà, e invece trova Edwy Plenel, già a capo del Monde e poi creatore del blog di successo Médiapart, che addirittura dal contropotere passa all’antipotere. Plenel è uno più attento di Scarfato e dei suoi del Fatto-Falso, difficile che si faccia beccare con in mano un falso materiale contro il presidente del Consiglio quando con l’aiuto delle sue fonti ovviamente opache, ma da una posizione ideologica di rango diverso da quello del Canard enchaîné, tipico e antico foglio di provocazione e delazione politica incantatoria, infilza ministri, ottiene dimissioni per indegnità morale, insomma quando fa pulizia. E’ un professionista non un dilettante. Però “antipotere”, che parola grossa.
Ho sempre pensato che già contropotere è una scemenza. Come “editore puro”, altra manipolazione verbale. I giornali e le televisioni hanno padroni, li hanno sempre avuti. I giornalisti sono dipendenti, la loro indipendenza è un tratto del carattere, se c’è c’è e se non c’è non c’è, ma non è un distintivo professionale o una bandiera editoriale da sventolare con pallido orgoglio e torvaggine virtuosa. C’è la pubblicità. Ci sono i mezzi finanziari mediati dal sistema bancario. Ci sono le famiglie e i loro interessi, le alleanze, per non dire delle passioni meno tristi, quelle intellettuali e politiche. Puro o no, un editore rappresenta un potere. E la stampa libera e pimpante nasce come conflitto tra poteri, è la libertà non del giornalista di pavoneggiarsi con la deontologia a schiena dritta, ma degli editori di rischiare il capitale, correre l’avventura oratoria della democrazia pluralista intrecciando fatti e opinioni a contrasto, magari comunicando al lettore, che non è “il nostro solo padrone”, cazzate, ma andrebbe rispettato, il senso e la realtà della propria posizione. Così nacquero nel Settecento in Inghilterra i progenitori del giornalismo, e non c’erano l’Ordine professionale, l’editore puro, il giornalista indipendente che dipende, e altre fole.
Il potere dei giornali e delle televisioni è un potere di élite. Ovvio. Siccome le élite sono in crisi, siccome la loro autorità presunta è appesa a un nuovo mondo individualista, aperto, in cui Dio Patria e Famiglia non hanno più posto, et pour cause, questa attività di élite è spregiata spesso e con gusto, condannata, smutandata dagli stessi popoli e populisti in soccorso dei quali l’antipotere fa la ruota e colpisce come può, anche con la favolosa campagna di smerdamento di un babbo Renzi, guarda tu che trovata da asilo infantile. Succede questa cosa strana: la gente, per dirla con grossolanità, detesta chi comanda, ma pensa che chi attacca il potere scrivendo e cianciando variamente è peggio ancora di quelli al timone.
Marcel Gauchet è un osservatore molto acuto e limpido del malessere da globalizzazione, della dialettica oligarchica di nuovo tipo nata dall’avvento dell’individualismo tecnologico e di mercato, e sa, lo scrive in un magnifico pamphlet in dialogo con Eric Conan e François Azouvi, che all’esaurimento dell’autorevolezza delle élite corrisponde perfettamente la decadenza mascherata del loro controtipo, il giornalismo, il sistema dei media cresciuto in capacità di dominazione. Il giornalista vuole formare le coscienze, come un tempo l’intellettuale, il philosophe, e di fronte a un mondo politico infeudato e fragile, che non può sfuggire al suo ricatto sistematico, il giornalismo impone l’isteria dell’indignazione, contro ogni possibilità di discutere, analizzare, trovare soluzioni. “Il mondo giornalistico è divenuto un antipotere. Esercita una sorta di censura a priori dell’azione politica, la qualifica da subito con la formula del sospetto e dell’indegnità. Non abbiamo più a che fare con un contropotere, ma un antipotere molto meno interessato a prendere la guida che a distruggere ogni possibilità di guida… Ciò a cui aspirano i giornalisti, con curiosa mescolanza di moralismo e di libertarismo che è molto nello spirito del tempo, è l’incapacitazione dei poteri”.
Qui naturalmente si parla di cose serie, di élite degenerate, non di sveltine o veline a ruota libera, non di uscieri di procura che elzevireggiano alla puttanesca. Ma colpisce questa aspirazione a incapacitare qualunque potere, oggi attacchiamo il Cav. in attesa di trovare quello buono, poi arriva quello che sarebbe buono e scopriamo subito che è peggio del Cav., magari con l’aiutino di un carabiniere disinvolto o coglione, colpisce, annoia e inquieta questo antipotere dei bassifondi che si scambia per moralismo libertario e cerca di darsi anche in Italia una vernice di rispettabile ideologia politica e civile. Con il Cretino Collettivo, dame e giuristi, costituzionalisti e starlet, storici dell’arte e gentucola da Panama Papers, tutti a spellarsi le mani nella più demente delle platee, tutti al seguito dei moralizzatori moralizzati.