Edward Hopper, "Eleven AM" (1926)

Solo dentro la stanza

Annalena Benini

In questi ponti sconfinati perché non provate il metodo Shultz? Se resistete all’astinenza, è fatta

Se solo ammettessimo che i più grandi disturbatori di noi stessi siamo noi stessi. Se solo riuscissimo a dire che siamo noi a riporre le più grandi speranze nella distrazione continua, nel delirio perenne, nell’affollamento di pensieri uno sull’altro e nella dittatura di notifiche elettroniche che comunque vanno controllate anche quando è (quasi sempre) il negozio di divani che annuncia la svendita di fine stagione. Se solo dicessimo: sono io. Che se non ricevo una mail, anche spam, per più di dieci minuti mi preoccupo e penso che sia saltato il server, che ci sia un guasto gravissimo, mi sento tagliato fuori dal mondo e dalle svendite di divani e dalle comunicazioni scolastiche e anche dai tentativi di truffa, oltre che dalle, rarissime, cose davvero importanti. E se il telefono si scarica, se passa all’improvviso dal sette per cento allo schermo nero, quello è un momento pericoloso in cui si rischia di diventare violenti, picchiare chi non ci presta subito un caricabatterie, sfasciare il posto che non offre una presa della corrente. Perché il nostro vero, profondo terrore è che nessuno ci disturbi, anzi che a nessuno venga proprio in mente di disturbarci, di chiederci un’opinione, un consiglio, un favore, un appuntamento, di offrirci anche solo una fattura finta, la pubblicità di un casinò, un invito all’inaugurazione di un negozio di tovaglie. Ma poiché noi, soprattutto durante questi interminabili, misteriosi ponti in cui tutto si ferma, ci siamo abituati a dire che abbiamo molto bisogno di “ricaricare le batterie”, “staccare la spina”, “disintossicarci”, e poiché il problema del mondo sembra essere l’impossibilità di concentrazione per eccesso di stimoli, il New York Times ha proposto di recuperare il metodo Shultz, nel senso di George Shultz, segretario di Stato americano durante la presidenza di Ronald Reagan, negli anni Ottanta del secolo scorso.

 

Shultz era davvero molto impegnato, anche senza Twitter e Instagram, ma una volta alla settimana si chiudeva per un’ora in una stanza, solo con un foglio di carta e una penna. Gli serviva a: riordinare i pensieri, avere uno sguardo d’insieme, concentrarsi su una strategia non spezzettata e occuparsi di grandi questioni. Nessuno poteva telefonargli in quell’ora di solitudine. La segretaria doveva disturbarlo solo se l’avesse cercato il Presidente, oppure sua moglie. Nel caso in cui uno dei due avesse deciso di dichiarare una guerra. Sembra facile, ma è una grossa prova: un’ora senza nient’altro che noi stessi. E se si riesce a superare la crisi d’astinenza, le convulsioni, il tic alla mano che corre a cercare il telefono, le allucinazioni per cui sembra di sentire suonare una notifica, se si riesce anche a resistere alla tentazione di buttare giù la porta con una spallata, allora questa ora diventa molto utile. Il cervello si distende, davanti ai problemi irrisolvibili spuntano soluzioni che prima non esistevano, a poco a poco le idee arrivano limpide, soprattutto la sensazione di essere troppo occupati, troppo affollati, si rivela per quello che è: una scusa. Shultz aveva bisogno di questa ora senza distrazioni, noi fingiamo di desiderarla ma nella realtà ne siamo terrorizzati. Senza nessuno che ci guardi, senza mettere una foto della nostra solitudine, senza tuittàre che siamo chiusi dentro una stanza a pensare, senza chattare il nostro turbamento, che cosa abbiamo da dire a noi stessi?

  • Annalena Benini
  • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.