Jheronimus Bosch, “Trittico di Santa Liberata” o Wilgerfortis (particolare) © Archivio fotografico Gallerie dell’Accademia (su concessione del ministero dei Beni e delle attività culturali)

I corpi dei mostri

Marina Valensise

Donne barbute, civette sul capo. I rebus e le enigmatiche figure di Bosch che sedussero il cardinale filosofo. In mostra a Venezia

Nel 1568 Giorgio Vasari citava nelle Vite le invenzioni di Jheronimus Bosch, che in quello stesso anno veniva descritto da un consigliere di Gand come “un creatore di diavoli, come nessuno riusciva a eguagliare, quando si trattava di raffigurare demoni”. Quarant’anni prima, lo storico dell’arte Marcantonio Michiel, visitando a Venezia la collezione del cardinal Domenico Grimani, elencava, fra gli altri, tre dipinti eseguiti a dir suo dallo stesso Bosch: “La tele delinferno cun la gran diuersità de monstri fo de mano de Hieronimo Bosch. La tela delli sogni fo de man delinstesso. La tela della Fortuna cun en ceto che ingiotte Giona fo de man de linstesso”. E’ questa una testimonianza essenziale, avverte Bernard Aikema, lo studioso che ha curato la bella mostra in corso a Palazzo Ducale a Venezia fino al 4 giugno (“Jheronimus Bosch e Venezia”, catalogo Marsilio, 238 pp., 35 euro). Offre infatti una delle più antiche descrizioni critiche delle opere del fiammingo, anche se resta una descrizione problematica.

 

L’elenco tratto dal manoscritto di Michiel non sembra coincidere con le tre opere di Bosch di proprietà di Domenico Grimani, rimaste sepolte per più di un secolo nei depositi di Palazzo Ducale, riesumate alla fine del Seicento, poi partite per Vienna all’inizio dell’Ottocento e restituite nel 1919, dopo la Grande guerra, alle collezioni pubbliche veneziane alle quali il cardinale umanista le aveva destinate prima di morire nel 1521.

 

Tre opere rimaste sepolte per un secolo nei depositi di Palazzo Ducale, riesumate a fine Seicento, partite per Vienna e tornate nel 1919

Si tratta di tre dipinti: il trittico di Santa Liberata, il trittico dei Tre santi eremiti, alias Sant’Antonio, San Girolamo e Sant’Egidio, e le quattro tavolette che rappresentano le Visioni dell’Aldilà, Paradiso e Inferno, con le anime accompagnate dagli angeli che entrano nel verde del paradiso con la fontana della vita sullo sfondo; la loro ascesa dalle tenebre con l’ingresso nella luce abbagliante di un tunnel visionario; la caduta delle anime dannate nelle fiamme brulicanti dell’Inferno, e la loro condanna nel buio senza speranza degli inferi, fra montagne carbonizzate,
e i bagliori di un incendio sulle acque nere di un fiume di pece dove stentano a galleggiare. Manca dunque il quadro citato da Michiel, che raffigurava Giona e la balena, forse perché venne restituito alla famiglia Grimani e andò perduto, forse perché si trattava di un’opera non di Bosch, bensì del Civetta, alias il fiammingo Herri met de Bles.

 

Fatto sta che dei tre dipinti veneziani di Bosch, conservati alle Gallerie dell’Accademia, ormai sappiamo tutto o quasi. Il recente restauro affidato a Roberto Saccuman e a Giulio Bono, sotto la direzione di Matteo Ceriana e Maria Chiara Maida, promosso in occasione del quinto centenario della morte del pittore, nell’ambito del Bosch Research and Conservation Project, lavoro di gruppo diretto da Jos Koldeweij, in collaborazione con la Getty Foundation, ha messo in luce alcuni dettagli essenziali non solo per l’attribuzione delle opere alle mano autografa del pittore, grazie all’analisi dendrocronologica che fissa la datazione dell’opera, ma serve anche a identificare il tema.

 

Così per esempio oggi conosciamo con certezza l’identità della santa martire raffigurata nel primo trittico, dove appare una fanciulla dai lunghi capelli rossi crocifissa, con indosso una veste rossa, una coroncina d’oro sul capo, circondata a destra da un gruppo di nobili figure in posa solenne riccamente addobbate, e a sinistra da una folla più popolare di personaggi stravaccati a terra con la testa tra le mani, mentre cercano di dare sollievo a un giovanotto riverso a testa indietro, forse perché svenuto ai piedi della croce. Chi era dunque la bella dama crocifissa? La risposta è legata a un dettaglio emerso dall’ultimo restauro: una barbetta leggera ma inconfondibile, che forma quasi una corona di peluria grigiolina intorno alla mandibola della santa e permette di identificarla senza tema di smentita non già in un ermafrodito, o nell’antenato fiammingo di Conchita Wurst, la trans barbuta vincitrice dell’Eurovision 2014, e dunque nell’antesignano dei sogni più indicibili realizzati dalla modernità contemporanea, bensì in una martire cristiana praticamente sconosciuta a Venezia ma assai venerata nelle nordiche regioni renane del Brabante e delle Fiandre col nome di Wilgefortis (Virgo fortis) e altrimenti nota come santa Ontcommernis. La stessa barbetta figura infatti nella protagonista di un dipinto di Hans Memling, il Trittico di Adriaan Reins, conservato a Bruges, il che attesterebbe non solo la committenza nordeuropea, ma la fortuna della leggenda della principessa figlia di un portoghese re pagano, la quale, rifiutandosi di unirsi a un promesso sposo pagano, venne dapprima miracolata con la crescita della barbetta che l’assimilava a un uomo scongiurandone l’unione, e quando poi si rifiutò di rinnegare la sua fede cristiana per farsi impalmare dal fidanzato miscredente, finì crocifissa per ordine del padre re come un’emula del Cristo. Il giovane svenuto, riverso ai piedi della croce, sarebbe dunque il fidanzato respinto, che indossa calze turchine decorate col disegno di un gufo, fra una folla di disperati, mentre ai suoi piedi spicca una vanga piantata in terra, e posta accanto alla firma di Bosch, quasi a evocare il famoso Salmo 7, 16: “Egli scava un pozzo profondo e cade nella fossa che ha fatto”. In realtà, non sappiamo se era proprio questa l’intenzione di Bosch.

 

Il contatto tra due opposti, come il pittore fiammingo e il cardinale veneziano, avvenne per il tramite di un uomo d'affari di Anversa

Il Trittico di Santa Liberata, così da noi è chiamata Wilgefortis, non è che uno dei tanti esempi dei rebus che Bosch ha lasciato dietro di sé. Gli enigmi abbondano nel primo trittico Grimani, per esempio il bizzarro panorama nella tavola di destra, del tutto incongruo rispetto alla tavola centrale, visto che rappresenta nel mistero dei suoi colori acquitrinosi una distesa marina, forse un porto, con navi che affondano in primo piano, rocce scavate fra le case con operai armati di vanga, e due tipi che sembrano re magi ai piedi della tavola e indicano col dito la scena della crocifissione. Bizzarra anche la tavola di sinistra, dove Bosch ha dipinto un monaco incappucciato in primo piano, forse un sant’Antonio, che dialoga con una specie di sgorbio vivente, formato da due ali di pollo e una testa umana cinta da elmo, mentre dietro di sé una donna nuda sporge dall’antro di una rovina cadente e sullo sfondo domina la desolazione, con castelli in rovina dai quali spunta fuori un uomo armato di scala, vari volatili fuori misura posati sulle mura, e più in fondo un incendio che divampa nella notte sino a illuminare di una luce tetra le sagome della magioni di legno, allusione forse alla visione infernale del palazzo del re persecutore in fiamme, forse al grande incendio che nell’estate del 1463 devastò ’s-Hertogenbosch, città natale di Bosch.

 

Certo, il committente fiammingo che cinque secoli fa osservava quest’opera non poteva avere dubbi sull’iconografia e sul senso delle immagini, evocatrici dell’Imitatio Christi, testimonianza di una speciale forma di devozione tipica di un’epoca in cui il misticismo religioso si sposava con le buone pratiche, e la vita cristiana era innanzitutto una consuetudine di vita improntata alla pietà, alla morigeratezza, alla condotta esemplare. L’iconografia doveva parlare chiaro a chi, come Bosch, fosse stato un seguace, anzi un membro giurato della Confraternita di Nostra Signora, come si evince dal solenne funerale del pittore, celebrato nella cappella della confraternita, a nord del coro della cattedrale di San Giovanni a ’s-Hertogenbosch, la città dove l’artista era nato circa 66 anni prima, e il padre, Anthonius van Aken, anch’egli pittore, si era traferito da Nimega nel 1426, acquistando una casetta sulla piazza del Mercato.

 

La peluria sul viso della bella dama crocifissa, venerata nelle regioni del Brabante e delle Fiandre col nome di Wilgefortis

La Confraternita di Nostra Signora di ’s-Hertogenbosch era un’associazione prestigiosa, che univa le élite cittadine nel culto della Vergine Maria, per invocarne la protezione sia in vita sia dopo la morte. Oltre a 15 mila membri esterni, contava un centinaio di fratelli giurati che dovevano essere chierici o comunque edotti di questioni ecclesiastiche, e un piccolo numero di così detti Zwanenbroeders, fratelli del cigno. Stando a quanto riferisce Jos Koldeweij, Bosch divenne confratello giurato poco prima del gennaio 1488, e partecipò alla vita della confraternita offrendo un paio di banchetti in casa sua, con ospiti di riguardo come il segretario del futuro re di Boemia Massimiliano d’Austria, fungendo poi anche da anfitrione nella sede della confraternita (sappiamo persino quali cibi vennero serviti in quelle occasioni, otto capponi, quattro portate di conigli, anatre e polli nel primo banchetto, mentre il secondo banchetta in casa Bosch fu a base di pesce perché si tenne durante la Quaresima).

 

Oggi però molte delle figure dipinte da Bosch restano un mistero ai nostri occhi. Un rebus. Un enigma indecifrabile. Nel secondo capolavoro veneziano proprietà del cardinal Grimani, il trittico dei Tre santi eremiti, compare per esempio una testa di suora, il capo velato e i piedi che calzano zoccoli e calzette grigi. Chi sarà mai? In cima al capo, la stoffa del velo stretta intorno a un nodo finisce in un nido che contiene una civetta. Accanto a questa suora tutta testa e niente corpo, c’è una specie di uccello con la coda di pavone s’alza su due gambette da uomo infilate dentro un paio di stivali neri. Questa figura assurda ha il capo coperto da uno straccio pendente, dal quale fuoriesce un lungo becco a clave che addenta una sorta di ranocchia prossima alla lucertola. Ripreso di spalle, seduto sulla roccia poco distante da lui, Bosch ha dipinto poi un altro volatile antropomorfo, gambe pelose, un lungo velo nero che gli scende dalla testa sulle spalle, e un ramo sottile che spunta fuori a mo’ di naso, sul quale poggia un altro uccello. Potrebbe essere un pescatore, e invece no, è un lettore, un chierico, un dotto che col suo arto nero peloso che spunta fuori dall’ala sta tenendo in mano un libro rilegato…

 

Quale fosse il significato di queste immagini doveva essere lampante per l’uomo di fine Quattrocento. E per rendersene conto basta leggere alcuni vecchi saggi, che però oggi molti considerano superati, come quelli del tedesco Wilhelm Fränger, meritevolmente ristampati da Abscondita (Il regno millenario, Le tentazioni di Sant’Antonio), per cogliere la profondità della simbologia di Bosch, la complessità del suo messaggio e degli exempla creati dalla sua immaginazione, “frutto di una perfetta simultaneità del pensare e guardare”, parafrasi visive di professioni di fede, parole d’ordine, confessioni, ma spesso storture satiriche di culti ereticali, versioni parodistiche di sette clandestine extra ecclesiam, che servivano a denunciare interpretazioni infondate mentre per noi corrispondono solo a figure esoteriche, fantasie surrealistiche, dopo essere rimaste sepolte per secoli nei libri di devozione, nelle allusioni all’antico testamento, nella letteratura dei padri della chiesa e nei modelli di vita cristiana diffusi nelle regioni del nord Europa dove appiccò il fuoco dell’eresia ma soffiò pure, violento, il vento della Riforma.

 

 Un monaco incappucciato dialoga con una specie di sgorbio vivente, formato da due ali di pollo e una testa umana con un elmo

E allora, immaginatevi la sorpresa di riscoprire, grazie a questa incredibile mostra veneziana, la figura di un collezionista curioso, di un umanista coltissimo e aperto al nuovo come il cardinale Domenico Grimani, pilastro della chiesa di Roma e della Repubblica Serenissima. Negli stessi anni in cui Tiziano dipingeva la tavola dell’Assunta per la Basilica dei Frari, con la sua solennità neoclassica e luminosa, il cardinale eclettico, figlio del 66° doge della Serenissima Antonio Grimani, corrispondente di Erasmo da Rotterdam, committente di Michelangelo, fautore della pax rei publicae christianae, riformatore vicino all’olandese Adriano VI, cultore del sincretismo filosofico che univa all’epoca circoli neoplatonici e cabalisti ebraici, si lasciava sedurre dalle visioni mostruose di quel fiammingo pittore di nebbie acquitrinose, di mostri proteiformi, di animali antropomorfi e di umani in forma di rettili, anfibi e assurdi volatili…

 

Anche qui, la storia è prodigiosa e gli esperti confermano. Il contatto tra due opposti come il nord e il sud, il pittore fiammingo e il cardinale veneziano, avvenne per il tramite di un uomo d’affari d’Anversa, Daniel van Bomberghen, mercante di stoffe, arazzi e di oggetti di lusso, trapiantato a Venezia, dove divenne anche stampatore, e quindi principale editore di libri in ebraico e in aramaico destinati al commercio nella florida e cosmopolitica Repubblica Serenissima. Fu proprio lui, van Bomberghen, il mercante del lusso che animava una cerchia di amateurs e di artisti locali, a proporre al cardinal Grimani l’acquisto di gran parte della sua magnifica collezione di dipinti e di arazzi nordeuropei. E infatti era stato proprio lui, secondo Bernard Aikema, ad acquistare le opere di Bosch rimaste nella bottega di ’s-Hertogenbosch, dopo la morte del pittore nel 1516, per offrirle poi al ricco cliente veneziano. A mettere in contatto i due era stato Abraham ben Meir de Balmes, altro personaggio straordinario, savantebreo e medico personale del cardinale, oltreché dotto filologo in proprio, cultore della cabala e del sincretismo che si è detto. L’acquisto delle tele di Bosch da parte del Grimani avvenne però per mere ragioni estetiche, non iconografiche. Il culto di santa Ontcommernis era infatti sconosciuto a Venezia. E la leggenda dei Tre santi eremiti, invece nota, rispondeva per il modo in cui era stata trattata da Bosch a sorta di Wunderkammer, suscitando la curiosità di un pubblico informato e educato a dibattere di particolari curiosi e inabituali di una collezione universale. Incredibile pensare a tanta ricchezza, tanta libertà di scambi, tanta dovizie e apertura di idee, in un territorio così circoscritto e in un tempo così breve come quello in cui regnava a Venezia Domenico Grimani e la sua corte di eruditi ebrei.

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