Selfie per sempre
La coppia che scivola nel fiume in un giorno di festa e il confine tra la nostra realtà e un autoscatto
Adesso, anche se verrà ricostruita una nuova, definitiva verità sulla morte dei due coniugi nelle rapide del fiume Orta durante la gita del primo maggio, nessuna smentita della bugia o della ricostruzione affrettata potrà toglierci dalla testa che marito e moglie, trentadue anni, a spasso con i figli, siano morti per un selfie. Cioè nel tentativo di scattarsi un selfie il più vicino possibile alle rapide del fiume. Fa parte delle regole della post verità, e la verità di un incidente da selfie, in un giorno di vacanza, in un momento in cui tutti scattavamo il nostro personale ricordo di bellezza, di avventura, di straordinarietà o semplicemente di divano, significa troppe cose per ridimensionarlo, per trasformarlo in una colossale sfortuna qualunque: lei che si sporge per guardare le rapide e scivola, lui che cerca di salvarla. Serve un senso, un monito, e allora il senso è che stiamo perdendo di vista noi stessi, nel tentativo di afferrarci e offrire il nostro lato migliore agli amici e agli sconosciuti, all’album che certifica la nostra esistenza e la disinvoltura con la quale stiamo nel mondo, la capacità di afferrare gli attimi, facendo balenare l’idea che quei singoli attimi siano la sineddoche di un tempo meraviglioso, scanzonato e fotogenico, sempre degno di essere immortalato. Su una montagna, in automobile, in cima a un grattacielo: la nostra vita è speciale, certo, ma servono le prove. E le prove sono modificabili all’infinito, continuiamo a scattare finché non troviamo il sorriso migliore, l’esistenza più bella. Un po’ vogliamo farci invidiare, un po’ semplicemente amare, più di tutto vogliamo essere sicuri di non sparire, di non essere dimenticati. Come il ragazzo di diciotto anni fulminato da una scarica elettrica in cima a un convoglio del treno, fermo, sul quale voleva appunto scattare un selfie da postare su Facebook, da mettere su Instagram, come tutti gli incidenti d’auto per distrazione da selfie, anzi come questa distrazione continua, che riguarda tutti, anche al ristorante, anche davanti ai nostri figli, al mare, nel bagno di un treno, al lavoro. Guardiamo il mondo attraverso uno schermo, lo abbelliamo con i filtri, sorridiamo solo se qualcuno sta scattando una foto, e subito diciamo: da’ qua, fa’ vedere. L’acqua del fiume è più azzurra con il filtro chrome, ma è ancora più emozionante se sembra che ci stiamo cadendo dentro, se ci sporgiamo sull’argine. E’ più “vera”. Forse Silvia, la giovane donna che è scivolata nel fiume, cercava quella verità, forse ha confuso verità e selfie al punto da credere che quello non fosse davvero un fiume, ma soltanto lo sfondo di una fotografia, un pezzo di social network, un posto virtuale da misurare con i like, dove non può succedere niente di male perché c’è uno schermo a ripararci, e mille modi per attirare l’attenzione sulla parte migliore di noi: madri amorevoli, mogli felici, ragazze avventurose ed esultanti, stupite da una carbonara, e uomini sempre soddisfatti, vittoriosi. O forse è stata semplicemente sfortuna, come quella che ci fa ridere nei cartoni animati e che nella realtà è terrificante: il burrone, il sorriso, il vuoto sotto i piedi, e il telefono che vola lontano. Sembra impossibile che sia la realtà, eppure lo è. Sembra impossibile che esista una realtà fuori dalle nostro foto così vere, eppure c’è.
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