Ciao ciao maschio. Philip Zimbardo teme un futuro popolato di uomini non cresciuti
Il declino di un genere. Colpa dei padri assenti e della rivoluzione digitale. L’élite del futuro, dicono gli psicologi, sarà femminile
La mascolinità è una stella di latta che brilla sempre meno. Il sintomo è monitorato negli Stati Uniti, dove il suo declino è probabilmente uno degli ingredienti che ribollono nel pentolone del trumpismo. Lo dice lo studio di un famoso psicologo, Philip Zimbardo, che di ruoli sociali se ne intende: è l’autore del celebre esperimento sulle dinamiche di rapporto tra detenuti e guardie carcerarie, che dimostrò come un gruppo di studenti dell’Università di Stanford – messi nella stessa situazione e nei panni di – agivano esattamente i ruoli del condannato e del sorvegliante, senza averne in alcun modo le caratteristiche, la cultura, la storia o le attitudini.
La rivoluzione digitale, che falcidia posti di lavoro e fornisce rifugi mentali per ragazzi in fuga da realtà poco gratificanti, aggraverebbe l’eclissi o comunque funziona da detonatore: ecco perché lo studio di Philip Zimbardo e Nikita D. Coulombe, pubblicato in Italia da Franco Angeli a cura di Salvatore Cianciabella, è intitolato Maschi in difficoltà: Perché il digitale crea sempre più problemi alla nuova generazione e come aiutarla. Negli Stati Uniti, dove la crisi della famiglia è cominciata molto prima ed è un dato storico acquisito, affiora la punta dell’iceberg che sta crescendo sotto i nostri piedi in tutto il mondo sviluppato. Ma di che cosa è fatta la montagna sommersa? I ragazzi sono coinvolti, più delle femmine, da alcuni cambiamenti ormai strutturali: l’assenza della figura paterna per cui solo un bambino su due – la metà – ha la possibilità di costruire la propria autostima misurandosi e confrontandosi con un uomo che vive in casa; la femminilizzazione dell’insegnamento, per cui un supporto educativo maschile non lo si trova neppure a scuola; la competizione con le ragazze che stanno scalando il cielo con i migliori risultati scolastici, fatto che di per sé non costituisce minaccia ma certamente è una novità da metabolizzare anche affettivamente; la possibilità di compensare le frustrazioni in mondi virtuali, dove tutto è accessibile subito e senza sforzo, peggiorando così i deficit di attenzione (bambini e adolescenti, con numeri stratosferici di ore davanti a uno schermo, ne soffrono 5-6 volte più delle ragazze); l’assenza di alternative psicologiche e culturali accettabili a una visione egemonica della mascolinità per cui se non sei dominante, sei un mollusco.
Il timore di un futuro popolato di uomini non cresciuti, smartphone-dipendenti, o di uomini-barboncino, pigri e senza carattere, allarma il professor Zimbardo che mette a fuoco i diversi aspetti del declino, a partire dal segno meno nei risultati, che è destinato a crescere. L’analisi di 300 studi fatti in tutto il mondo sul rendimento scolastico dice infatti inequivocabilmente che le ragazze vanno meglio e, dunque – poiché i voti alti sono indispensabili per le borse di studio e per l’accesso all’università e alle carriere – l’élite del futuro sarà prevalentemente femminile. Negli Stati Uniti, le ragazze hanno superato i maschi nel numero di iscrizioni all’università (il più oscilla fra il 5 e il 10 per cento) e nel 2021 è previsto il sorpasso nelle lauree (58 per cento alle donne), nei master (62 per cento) e nei PhD (54 per cento). Secondo la valutazione PISA sulla lettura – effettuata in diversi paesi, Italia compresa – le ragazze hanno punteggi talmente più alti da risultare, mediamente, avanti di un anno scolastico e mezzo. Se si guarda la piramide al contrario, le cose stanno esattamente nello stesso modo: a 13-14 anni un adolescente americano su quattro non sa leggere e scrivere correttamente e, per la prima volta nella storia, i ragazzi sono meno istruiti dei loro padri; sono maschi il 70 per cento degli allievi che vanno male a scuola e due terzi degli studenti iscritti nei programmi di recupero di educazione speciale. Già oggi, per una donna tra i 25 e i 40 anni – chiosano Zimbardo e Coulombe – non è semplicissimo trovare un compagno adeguato; in futuro, la forbice della disparità sarà più grande.
Non è questione di quoziente intellettivo, non c’entra proprio nulla, per fortuna nessuno si metterà a pesare il cervello maschile, come si è fatto per secoli con quello femminile; questi ragazzi vanno male perché non studiano, e una delle ragioni è l’enormità di tempo speso su dispositivi digitali con videogiochi e navigazione su siti porno (negli Stati Uniti un ragazzo su tre è un utente assiduo di PornHub,YouPorn, RedTube) . All’Institute for the Future di Palo Alto stimano che nel corso della sua vita, fino ai 21 anni, un ragazzo spenderà 10 mila ore in videogiochi e, per capire lo squilibrio, Zimbardo e Coulombe confrontano il dato con il numero medio delle ore di lavoro necessarie per laurearsi: 4.800, un po’ meno della metà. Il tempo speso su dispositivi digitali dalle ragazze è invece assai più ridotto: in media 5 ore alle settimana e prevalentemente sui social, contro le 13 dei ragazzi, più attratti dai videogiochi d’azione e dalla pornografia. Le conseguenze sono meno ore di sonno, livelli di attenzione più bassi, necessità di sensazioni sempre più intense per sentirsi vivi, capacità e voglia di stabilire rapporti con le coetanee in calo. A tanti ragazzi che vanno male a scuola viene diagnosticato già da bambini un disturbo da deficit di attenzione, curato con la somministrazione di farmaci stimolanti. L’effetto indesiderato è che, con la crescita, prendendo quei farmaci si sviluppano forme di apatia, crollano le motivazioni interne che spingono a darsi da fare per soddisfare i propri bisogni: “Il soggetto non ha voglia di fare nulla, solo di rimanere su un divano come una patata sorridente. Questo è particolarmente rilevante per i giovani maschi negli Stati Uniti, dal momento che a loro vengono prescritti quasi l’85 per cento dei farmaci stimolanti”. Un disastro.
Ricordate quando Karl Popper spiegava che la televisione “cattiva maestra” avrebbe compromesso il funzionamento mentale dei bambini, a quattro anni già padroni del telecomando e dell’intermittenza dello zapping? Vent’anni dopo, l’apocalisse non c’è stata, ma certo la riduzione della capacità di attenzione e di concentrazione nei ragazzi è un dato in progressione da allora. L’interessante del lavoro di Zimbardo e Coulombe è l’analisi di queste tendenze comparata per sesso e integrata con altre variabili. E la disintegrazione della famiglia è certamente la ragione principale per cui un ragazzino americano in età scolare passa mezz’ora alla settimana faccia a faccia con il padre e 44 davanti a uno schermo, tv inclusa. Solo la metà dei figli la sera cena con i genitori, le madri non sposate sono più del 40 per cento e due terzi delle coppie di conviventi si separa nell’arco di dieci anni, un figlio su tre cresce senza padre. Del resto, la fragilità delle coppie anche sposate è un dato generalizzato quasi ovunque: in Gran Bretagna quasi la metà dei matrimoni finisce entro il sedicesimo anno, in Cina il numero delle separazioni supera quello dei matrimoni, anche nei paesi cattolici il divorzio è in crescita (Zimbardo e Coulombe citano la Polonia dove è l’esito di un matrimonio su tre). Nessun idealizzazione delle famiglie del passato, ma certo nel corso della storia i bambini crescevano con molte figure di adulti intorno, e altre presenze potevano attutire l’assenza del padre o della madre. Oggi la famiglia media è fatta di tre componenti e le relazioni di qualità tra piccoli e adulti sono scarse. Eccoci ai bambini soli, con madri stressate che si arrabattano tra casa e lavoro e padri assenti che faticano a pagare gli alimenti (negli Stati Uniti solo il 10-15 per cento dei papà ottiene la custodia dei figli). Gli autori di questo libro mettono sotto accusa anche il welfare perché – con il sistema dei sussidi – scoraggia le madri single a sposarsi e a stabilizzare la famiglia, che con l’ingresso di un papà non sufficientemente benestante sarebbe penalizzata e perderebbe introiti diventando più povera. Ma la vera domanda è : perché tutto questo danneggia più i figli delle figlie?
Perché in tutte le tribù si diventa uomini se si è riconosciuti da altri maschi adulti, perché la cultura di genere si tramanda e si apprende, e quello che può dare una madre da sola non basta a tenere insieme una identità maschile. Per compensare il vuoto paterno, negli Stati Uniti sono nate associazioni come Boysto Men che assumono il compito di traghettare i ragazzi all’età adulta, fornendo loro mentori e riti d’iniziazione e di passaggio, dal momento che la scuola – da questo punto di vista – non serve a molto, dato che il corpo insegnante è prevalentemente femminile (4 su 5, il 98 per cento alle elementari). La partita della scuola è decisiva, ma anche molto controversa. In questo libro si auspica non solo la promozione di un robusto inserimento di insegnanti di sesso maschile nel sistema educativo, ma anche il ritorno a classi separate per sesso soprattutto alle elementari, dove la maggiore difficoltà dei bambini a star fermi e seduti per ore, le loro maggiori attitudini pratiche, a differenza delle bambine che invece arrivano a cinque anni con maggiori competenze linguistiche, richiedono di essere “coltivati” diversamente, e meglio se da un insegnante dello stesso sesso.
Leggere che “un’istruzione unica non va bene per tutti e può finire per non essere adatta soprattutto per i maschi”; che “le insegnanti di sesso femminile hanno un pregiudizio contro i ragazzi” perché in sostanza li capiscono meno; che un’insegnante donna accresce le prestazioni scolastiche delle bambine del 4 per cento e danneggia quella dei bambini nella stessa percentuale, contribuendo a stabilire un gap progressivo; che il fallimento scolastico dei maschi può dipendere anche dalla loro difficoltà di adattarsi a “un ambiente ginocentrico”… Ecco, leggere tutto questo messo insieme lascia la sensazione straniante d’essere sbarcati su un altro pianeta. Un mondo diverso da quello dove le Storie della buonanotte per bambine ribelli scalano le classifiche dei bestseller. Invece è lo stesso mondo, ma bisogna prendere atto che mentre le madri e le insegnanti assolvono bene il compito di far crescere l’autostima delle ragazze, tirandole su libere e forti, non possono fare altrettanto con i maschi. Per questo ci vogliono i padri, i professori, i maestri.
C’era una volta un must, un libro bellissimo, fu tradotto in tutto il mondo e divenne uno dei simboli di una rivoluzione culturale: era Dalla parte delle bambine di Elena Gianini Belotti, che lo aveva scritto elaborando la sua straordinaria e decennale esperienza di direttrice del Centro nascita Montessori di Roma. Raccontava che il ruolo maschile e quello femminile non sono innati ma si apprendono fin dalla nascita e con un lungo addestramento. Il guaio era che l’apprendimento si fondava sul mito della naturale superiorità del maschio e nascere femmina significava – come del resto è ancora in larga parte del mondo – essere figlia di un dio minore, fare i conti per tutta la vita con una ferita inconscia, con un senso di inadeguatezza perpetuo. Non si poteva immaginare che quarant’anni dopo, sul tolda dell’occidente sviluppato, l’angolo visuale sarebbe stato capovolto.
Quello era un altro secolo, un tempo di bambine per lo più obbedienti e diligenti fino all’ossessione, con quaderni ordinatissimi dove scrivevano temi formalmente corretti con frasi zuccherose e conformiste, in attesa di un futuro di donne di casa; mentre i maschi più turbolenti avevano quaderni logori e squinternati dove buttavano giù in modo caotico, storie piene di vitalità e d’inventiva, in vista di un’avventurosa esplorazione del mondo. Era un tempo dove nei maschi si coltivava la forza e l’ingegno e nelle femmine solo remissività e grazia. Impossibile rimpiangerlo. Ma se non ci si prende cura dei bambini, con la consapevolezza che maschi si nasce ma uomini si diventa, le cose si mettono assai male per tutti. L’effetto collaterale indesiderato sono identità maschili fragili e incompiute, che non ce la fanno a tenere il passo.