La vendetta dell'ex corrierista
Poteri forti, pm, giornali. A Milano. Io so e ho le prove (ma è un romanzo)
I primi due morti ammazzati, kalashnikov, sono proprio qui sotto la redazione, all’angolo di via Vittor Pisani e via Boscovich, Milano. Non sono in verità i primi: sono gli ultimi di una catena antica, millennio scorso, ma i primi della storia che si riallaccia, sotterranea e minacciosa, al presente. Così è l’Italia. Guerre sporche, avvolte in carta di giornale.
Io so, ma non ho le prove. E’ l’affermazione minacciosa come un kalashnikov che ha rovinato la nostra storia politica, il nostro giornalismo, e ha foderato di doppi sensi i doppi fondi dei nostri sospetti. Del nostro scontento. Ferruccio de Bortoli sa, senza dubbio ha anche le prove. E ha scritto quella cosa, per quanto il vezzo giornalistico vieti l’onere della nota a piè di pagina. Il procuratore sa, ma non ha le prove. Però si porta avanti. Nel caso aprirà un’inchiesta.
Io so, ma non ho le prove è invece perfetto per gli scrittori, per i romanzi. Lì le prove finalmente ci sono. E’ letteratura, bellezza. Bisogna semplicemente fare il salto dal giornalismo al romanzo, dalla giudiziaria al noir. E dirla tutta. Come ha fatto Roberto Perrone, che dalla lunga carriera di giornalista al Corriere della Sera è passato dolcemente, da un po’, a quella di narratore. Ha scritto un romanzo (“il suo primo noir”) che sarebbe perfetto per una miniserie televisiva. Una storia d’Italia con baricentro Milano. Che dal millennio della sporca guerra ideologica degli Anni di piombo trapassa nel presente attraversando la sporca guerra giudiziaria di Mani pulite. Col compasso puntato nei cerchi dell’informazione e della magistratura. Anzi, poiché siamo a Milano: del Corriere della Sera e del Palazzo di giustizia in corso di Porta Vittoria. Perrone sa, e ha le prove. O meglio a sapere, e a sapere come procurarsele, è il suo protagonista, Annibale Canessa.
Annibale Canessa è un ex super poliziotto. Un eroe (non si sente tale) dell’antiterrorismo. Tradito, come tutti gli eroi. Dallo stato e dall’antistato insieme, e poi messo fuorigioco dalla fine (presunta) della guerra. Rintanato a San Fruttuoso, a fare immersioni e a gestire il ristorante con la zia. Richiamato alla vita dal nuovo sangue. La seconda vita di Annibale Canessa è appunto il titolo del romanzo (Rizzoli), uscito qualche mese fa, sta andando anche bene. Siccome è un noir, sono vietati gli spoiler. C’è un ex terrorista che esce dal carcere in tempo per farsi ammazzare assieme al fratello del suo ex grande nemico, il colonnello carabiniere in pensione Annibale. Il passato tormenta qualcuno nel presente. Intrighi che passano da qualcosa accaduto al Palazzo di giustizia, dalle telefonate sui cellulari di qualche giornalista. La verità è nascosta dietro la rappresentazione falsata, incartata nei giornali e nei verbali di procura. Dentro le carriere di carta di uomini di carta. Perrone sa, ha le prove.
Il romanzo scorre bene, passato e presente, fatti veri e location. Personaggi a chiave, per chi vuole capire. Sparatorie, intrighi. Giusto il clima degli anni Settanta, credibile il clima del Terzo millennio. Sesso acrobatico ogni venti pagine, per chi invece preferisce la modalità spettatore seriale. La cosa più interessante è però che, nel mare magnum dei commissari e degli ispettori, dei magistrati che si fanno narratori e raccontano i poteri forti e le mafie e le mafie capitale – e c’è sempre un magistrato buono con un giornalista buono contro il Potere Corrotto e il Doppio Stato da smascherare – qui la situazione è ribaltata. I cattivi stavolta (non è spoiler) sono dentro al Palazzo di giustizia. Qualcuno anche dentro a via Solferino. Perrone, che è un uomo bonario e tagliente, s’è preso la vendetta su un mondo che conosce, storie che ha vissuto. E l’ha presa nell’unico modo in cui si può, con la verità del romanzo. Che emerge dal sottofondo del circo mediatico-giudiziario. Carla, la giornalista strafica ed eroina, è proprietaria di due battute chiave, sul versante dei giornali. “Ma io, tecnicamente, posso definirmi una troia?”. Poi però capita anche a lei di trovarsi “in mezzo a quel circo e conoscendo la persona che stavano crocefiggendo, si rendeva conto di quanto fosse – alla fine le uscì il vocabolo corretto – ‘stronzo’ quel modo di procedere, privo di un ragionamento che oltrepassasse la velina con le accuse di parte”. Milano, Italia. La carriera di magistrati costruita sul mito di Mani pulite, ma con scheletri nell’armadio (detto con pardon: io so, ma non ho le prove). Le carriere giornalistiche costruite sulle connivenze in procura. Il rito sociale, la moralità di facciata apparecchiata sui giornali e nel giro dei salotti. E il tornaconto spicciolo, e l’ipocrisia come una grande afa sulla città. Io so, ma fuori dal romanzo nessuno ha le prove. Però lo sanno tutti, chiunque sia passato da un’aula di tribunale e peggio ancora dalla redazione di un giornale negli ultimi trent’anni, qual è l’intreccio. Quali sono i poteri, non forti però veri, coesi.
L’aveva già fatto, s’era già preso una sua piccola vendetta. Nel suo primo romanzo, molto bello, La lunga – intesa la notte passata a coprire la redazione sportiva al Corriere, la Fortezza Bastiani, in attesa della notizia che non arriva mai, “casomai morisse Rivera”. La vendetta allora era quella del giornalista culo di pietra che non ha fatto carriera, ma viene la notte in cui potrà rifare la prima pagina, fanculo i capoccia e fanculo Rivera, oggi vi racconto una storia vera. Questa volta il gioco è più alto, sebbene Perrone sia bastantemente intelligente da non prendersi sul serio, da non uscire dal noir. La verità, vi racconto, su come funzionano magistrati e giornali, giornalisti e pm. E di quanto non detto e di travisato grondi la nostra storia. Sotto la patina del perbenismo, del moralismo. Nel giorno in cui debutta, la serie del 1993 di Sky, la vendetta dell’ex corrierista può essere un antidoto istruttivo.
C’è un po’ di tutto, persino una tagliata di faccia per la “banda armata, weekend esclusi” dell’omicidio di Walter Tobagi. Scopano tutti come ricci. Ma siccome Perrone è un buon cattolico e ha fatto buone letture, a differenza di Stefano Accorsi sa che il sesso non è contenuto, e nemmeno metafora, del Potere. E’ una carta da pacco, o da parati, per tenere distratti dalle cose come sono davvero. Ma stavolta la verità è detta. “Un lavoro che andava fatto”, direbbe Annibale Canessa. Lui sa, e ha anche le prove. Perché è solo un romanzo.