Perché clicchiamo sugli articoli che spiegano il linguaggio dei gesti, ma ne restiamo delusi

Giovanni Maddalena

La nostra gesticolazione non è solo un rafforzativo o un sostitutivo della parola, ma un modo di capire di più ciò che vogliamo dire mentre lo diciamo. In ogni cosa che facciamo in fondo cerchiamo il significato

Di qualche giorno fa, sul Business Insider Italia e poi su Corriere.it, l’ultimo dei sempreverdi articoli sul linguaggio del corpo, gesti, atteggiamenti non verbali rivelativi. Stavolta si riportavano i 19 gesti più significativi secondo qualche recente pubblicazione. Ovviamente si tratta di articoli cliccatissimi, di sicuro successo. Del resto, come spesso accade, il successo è comprensibile e in una certa misura motivato, ma occorre metterlo ben a fuoco se si vuole evitare la banalità, l’inganno o, peggio, lo snobismo.

 

Perché ci interessa il linguaggio non verbale? Perché ci sembra che conoscendolo possiamo scoprire qualcosa di nascosto degli altri e controllare qualcosa che nascondiamo noi. Solo che, da questo punto di vista, i mille libri sull’argomento e i ciclici articoli su quotidiani e riviste alla fine lasciano con l’amaro in bocca. Incrociare gambe o braccia significa mettersi sulla difensiva mentre guardare l’interlocutore negli occhi introduce l’empatia. Stando attenti a non esagerare, perché se fissiamo qualcuno smettendo anche di sbattere le palpebre forse penserà che stiamo mentendo o che vogliamo minacciarlo. Non pare che siano rivelazioni che vadano molto oltre il buon senso. Quando uno finisce l’articolo, dirà a se stesso che c’era già arrivato da solo e che questi studi lasciano il tempo che trovano. Fino al prossimo articolo.

 

Il problema è che c’è nei gesti un segreto che non si riesce a cogliere fino a quando li si considererà un linguaggio parallelo e diminuito di quello verbale o simbolico. Per dire a qualcuno che non consideriamo valida la sua proposta, un bel gesto dell’ombrello sostituirà la parola adeguata. Le nostre braccia conserte sarebbero l’equivalente di un “dì pure ma tanto non ti ascolterò”, e così via. Solo che così presto ci annoiamo, il grande segreto ci è sfuggito.

 

Proviamo invece a considerare i gesti in un altro modo. Infatti, spesso comprendiamo qualcosa facendo qualcosa: si pensi agli esperimenti scientifici, alle opere d’arte – dalle sculture antiche alle performance moderne – ai tanti riti privati e pubblici attraverso i quali comunichiamo i significati, da “ti voglio bene” a “XY è il nuovo presidente degli Stati Uniti”. Tante volte per capire abbiamo bisogno di fare qualcosa, come dimostrano molte teorie pedagogiche contemporanee e molta esperienza quotidiana, dagli esercizi di matematica alla dichiarazione d’amore. In tutti questi casi i gesti sono espressione di una razionalità diversa da quella che normalmente viene veicolata tramite la parola. Mentre le parole sono strumenti prediletti per condurci all’interno di sofisticate analisi, i gesti appartengono alla razionalità che utilizziamo per comprendere sinteticamente ed efficacemente.

 

Certo, la tela di Pollock o l’esperimento di Rutheford sono gesti molto complessi, che sintetizzano temi e problemi immensi. Tuttavia, anche il nostro gesticolare e il modo di utilizzare il corpo possono essere letti dentro questo paradigma diverso. Così, essi sono strumenti conoscitivi di questa razionalità sintetica. Quando incrociamo le braccia non abbiamo già deciso di non fidarci. Stiamo utilizzando invece il corpo per cercare di capire con chi è che abbiamo a che fare. Si potrebbe dire che non incrociamo le braccia perché non ci fidiamo ma non ci fidiamo perché incrociamo le braccia. William James, uno dei fondatori della psicologia contemporanea, diceva che non piangiamo perché siamo tristi ma siamo tristi perché piangiamo. Non voleva con ciò dire che il corpo decide del pensiero, ma piuttosto che il corpo è un aspetto del pensiero, del pensiero che utilizziamo sempre per capire il mondo mentre ci muoviamo in esso. Piangiamo per capire che cosa ci sta succedendo. La nostra gesticolazione non è solo un rafforzativo o un sostitutivo della parola, ma un modo di capire di più ciò che vogliamo dire mentre lo diciamo. O, se stiamo zitti, esso è parte del nostro comprendere mentre comprendiamo.

 

La nostra delusione per gli articoletti di traduzione dei gesti dipende dal fatto che essi colgono solo una parte di ciò che accade nei nostri gesti, per poi classificarla e relegarla in ambiti specifici e settoriali come la psicologia, la sociologia o la comunicazione. Invece, la nostra esperienza sa che la nostra conoscenza sintetica ha bisogno allo stesso tempo di tutti gli elementi psicologici, cognitivi, fenomenologici, semiotici, ecc. E un gesto complesso li mette più facilmente insieme. Allora un gesto corrisponde alla sua etimologia, che deriva dal latino “gero”, portare. Che cosa portano questi nostri gesti? La nostra perenne ricerca di significato, che è il grande segreto di ogni azione.

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