Meglio la leggenda della verità, quando si tratta di autobiografie
L'autobiografia di Michele Mari che sembra ordinata da Lovecraft
L’autofiction un po’ ha stancato, bisogna dirlo. In Italia più che altrove. Da noi anche i romanzieri che dovrebbero inventare storie – gratta gratta e a conoscerli un po’, basta leggere le interviste o spulciare le biografia – non inventano granché, rispetto alla vita che conducono. E per paradosso, succede che la temperatura narrativa si abbassi – invece di alzarsi come dovrebbe – quando uno scrittore racconta faccende personali.
L’autobiografia di Michele Mari seduce già dal titolo, “Leggenda privata”. “Tra la verità e la leggenda stampate la leggenda” intimava James Stewart alla fine di “L’uomo che uccise Liberty Valance” (diretto da John Ford nel 1962): era scontato che la leggenda fosse più interessante della verità. Ogni storia, per quanto privatissima, quando viene raccontata – e ancora di più quando viene scritta – non coincide esattamente con la verità. Due punti a favore. Vale come terzo punto a favore l’incanto di “Tu, sanguinosa infanzia”: tra altri racconti, Michele Mari ne dedicava uno alle copertine della storica collana di fantascienza Mondadori diretta per un paio di decenni da Carlo Fruttero & Franco Lucentini. Basta l’incipit: “Forse il sogno più dolce della mia vita fu quando Robert Louis Stevenson venne chiedermi se potevo prestargli un po’ dei miei Urania”.
Aggiudicato. Dopo un assaggio tanto gustoso (datato 1997) volentieri leggiamo il resto dell’autobiografia. Anche prima di sapere che “Leggenda privata” (Einaudi) è un libro scritto per ordine di certi mostri usciti da un romanzo di Lovecraft (si vorrebbero avere gli storici disegnatori delle copertine di Urania per illustrarne le fattezze). Colui che Gorgoglia, colui che Biascica, e un’Accademia dei Ciechi: di notte si tolgono gli occhi dalle orbite, li disseminano in punti strategici della casa, la mattina li riprendono, così controllano ogni cosa senza essere presenti.
Spinto da simili furie, Michele Mari racconta la sua storia – e le sue lotte – con un padre che ha nome, cognome e notorietà, il designer Enzo Mari. Di una madre che ha nome, cognome del marito, notorietà da illustratrice di libri per bambini: Iela Mari (con il nome da ragazza, Gabriela Ferrario, scalava le montagne assieme a Dino Buzzati). Aggiunge fotografie dal proprio archivio: chi è cresciuto nell’èra dei selfie fatica a immaginare quanto rare fossero le immagini, quando dopo lo scatto bisognava farle sviluppare e stampare.
Non c’è imbarazzo né dolore che tenga, dalla pipì a letto ai litigi tra genitori, sotto l’insistenza dei mostri avidi di dettagli privati. I mostri siamo noi lettori, ovvio. Ma non c’è da vergognarsi: leggiamo le storie altrui sperando siano più interessanti delle nostre. Un piacere che “l’uno vale uno” – vigente nella letteratura fai-da-te prima che i grillini ne facessero uno slogan politico – rischia di cancellare. Tranne quando ci si imbatte in un libro come questo, a cui si perdona perfino l’uso dei puntini di sospensione tra parentesi quadre (si capisce che ogni tanto il narratore abbia bisogno di ripigliare il fiato). Basta per tutte la serva Velia, sporca di una sporcizia che oggi non sembra neppure possa esistere in una casa borghese, e che ricorda Jonathan Swift quando descriveva lo spogliatoio della signora (molte sono le citazioni letterarie sparse nelle pagine, ma anche se il lettore non le riconosce gode lo stesso).
Quando Michele Mari annunciò che voleva studiare Lettere, si sentì rispondere “mi sembra un frin-frin”. Nel lessico paterno, una perdita di tempo. Il genitore sbagliava, e la rivincita tardiva non è meno dolce.