Il bardo dell'Apocalisse. In memoria di Sergio “Alan” Altieri
"E quant’io l’abbia in grado, mentr’io vivo / convien che ne la mia lingua si scerna". Un ricordo dello scrittore, sceneggiatore e traduttore morto improvvisamente il 16 giugno
Il re dal largo cuore
C’erano canti e musiche: un vecchio Scylding,
che aveva appreso moltissime storie,
si mise a rievocare il remoto. Altre volte
qualcuno, strenuo in battaglia, tentava la gioia dell’arpa,
il legno dilettoso. A volte inventava
canzoni tristi e vere, a volte strane storie
raccontava, per filo e per segno, il re dal largo cuore.
A volte ancora, legato all’età,
prendeva, qualche vecchio combattente di guerra,
a lamentare la sua giovinezza:
con un fermento dentro alle viscere,
mentre, esperto di inverni, ricordava a stormi.
Così là dentro, per tutto il giorno,
ci demmo ai diletti, finchè sugli uomini
scese una nuova notte.
Del guerriero aveva la stazza imponente (sarebbe stato un perfetto Lord Mormont, il vecchio Orso delle Cronache del Ghiaccio e del Fuoco di G. R. R. Martin, che proprio lui aveva tradotto), che però rivelava subito una gentilezza che risulterebbe sorprendente solo per chi non abbia già scoperto che i grandi, quelli veri, in qualsiasi campo, sono sempre umili. Sono troppo interessati a ciò che veramente conta per perdere tempo con miserie affettate. Solo i mediocri di successo hanno bisogno di schermarsi con scudi e piedistalli. Sergio “Alan” Altieri invece era un maestro e un punto di riferimento proprio perché non voleva esserlo. Quanti potrebbero raccontare la generosità infaticabile con la quale ha sostenuto e incoraggiato tanti giovani scrittori e traduttori, con la stretta stritolante della sua manona e con l’indimenticabile ital-english delle sue mail (let’s rock, man!), il tifo appassionato che riservava agli amici, il coraggio e l’audacia delle sue scelte editoriali. Era grande, bruno, calvo, scriveva Manzoni dell’Innominato, altra grande sua possibilità interpretativa (se si fosse cambiato il finale e il selvaggio signore avesse sparato prima al Cardinale e poi avesse buttato quella piagnona di Lucia già dal dirupo, ovviamente). Anche Sergio era davvero imponente, come uomo e scrittore (quando avevo l’onore di essere con lui a parlare di traduzione, dicevo sempre che va bene essere nani sulle spalle dei giganti, ma essere nani accanto ai giganti è un tragica beffa), ma la sua grandezza coinvolgeva e innalzava chiunque incontrasse, perché ti faceva sentire a bordo della stessa nave di pirati e avventurieri, alla caccia del grande tesoro che fa davvero compagnia nel mare oscuro della vita: le grandi storie, la canzoni da intonare mentre ci passiamo il rum. E quant’io l’abbia in grado, mentr’io vivo/convien che ne la mia lingua si scerna.
Chiunque ami la grande letteratura d’azione sa che egli non è stato solo un pioniere, che ha aperto piste a colpi di macete che altri tutt’oggi nel nostro paese faticano a ripercorrere, ma anche un protagonista e un fuoriclasse non solo della narrativa stessa (Città di Ombre, Kondor, L’Eretico, Juggernaut…) ma anche del cinema e della televisione (Velluto Blu, Conan, La Uno Bianca…), dell’editoria (Giallo Mondadori, Urania, Segretissimo…), della traduzione (G. R. R. Martin, Chandler, Lovecraft…). Eppure, qualunque elenco della sua sterminata produzione, a chi gli debba tante ore di felicità, parrebbe comunque riduttivo. Come in tutti i grandi narratori, c’era in lui qualcosa che si comunicava da una serie di dettagli infinitesimali e che, al tempo stesso, li superava tutti.
Tornando all’immagine del Beowulf, Sergio è stato davvero un bardo-guerriero, con le cicatrici di mille battaglie. E al pari del vecchio re, anche lui ha sempre cantato le nostre piccole “luci”, di cui ha irriso tutte le miserie e le violenze-lucette intermittenti e ipocrite come civiltà, economia, politica, religione e le tenebre tutte intorno, nell’epica delle sue megalopoli del futuro, delle squadre speciali e degli sniper in missione negli inferni della terra, tra i roghi, i corvi e la peste della Germania della Guerra dei Trent’anni, nelle navi spaziali della sua ultima opera, appena uscita, dove l’ultimo guerriero si trovava a tenere testa all’ultimo, definitivo Nemico. E proprio l’aggettivo ultimo, che tanto spesso ricorre in quelle pagine, adesso assume un valore aggiuntivo di testamento, che le rende dolorosamente care a chi invece sperava di poter attingere ancora e ancora alla cascata della sua poderosa immaginazione. Del noir che tanto amava, aveva ereditato le battute pungenti e dolorose dei suoi lupi solitari, che potevi ripassarti in bocca con un sogghigno dolceamaro (“Potevi almeno mandarmi una cartolina…” “Non ti sarebbero piaciuti i posti”). Le ricerche accurate e le competenze in ambito militare, scientifico, ingegneristico erano fuse a un senso perfetto e vorticoso del ritmo, come una lega micidiale. Una frase di Altieri era una spada d’acciaio spagnolo, la riconoscevi subito, feroce e magnifica, ed eri contento che ti arrivasse dritta alle viscere.
Ci vediamo al Ragnarok, Sergio
Chiunque abbia avuto il piacere di ascoltarlo, sa come ogni incontro si trasformasse, come per magia: si accendeva un fuoco invisibile, e nel rievocare o accennare le storie che aveva scritto o stava ancora scrivendo (e ce n’erano sempre a bizzeffe di entrambe, come un pozzo scuro pieno di oggetti misteriosi) le sue immagini, le sue pause ci trasportavano immediatamente lontano, tra la polvere e il sangue del nostro passato o del nostro futuro. E se c’era una cosa che amava altrettanto se non piú, a ulteriore riprova della sua magnanimità, era citare anche le grandi storie altrui, le battute memorabili dei film, e magari la perla che sapeva scovare anche nelle produzioni di serie B, e che valevano comunque il prezzo del biglietto.
Due giorni prima di morire, era a Firenze e, nel suo ultimo incontro pubblico, concluse la chiacchierata con i lettori citando uno suo vecchio favorito, Cadaveri eccellenti, dove Renato Salvatori commentava così un’operazione di spionaggio ai massimi vertici di Stato che dovevano intraprendere: "Un microfono sotto il culo del capo della polizia? Sono CAZZI". E Sergio, nello scandirla, sogghignava beato.
Magellan si chiudeva con un file inviato dal protagonista Dekker, unico sopravvissuto, alla Terra: ci sono luoghi dove l’umanità non po’ andare… ci sono luoghi in cui l’umanità non deve andare. Sergio Altieri, con quel sorriso feroce da lupo che però in filigrana conteneva un sole d’affetto, ci ha portato proprio lì. Nei prossimi mesi, nei prossimi anni, qualunque tributo, proprio come è colpevolmente stato quand’era in vita, sarà comunque troppo poco rispetto al debito enorme che intere generazioni di lettori e di scrittori gli devono. Molti, che con lui hanno condiviso anni di lavoro, battaglie e risate, provano a esternare, per quanto si possa, il proprio dolore e la propria gratitudine. È giusto, e ci proveremo ancora e ancora. Ma sappiamo tutti che le parole sono povere, e riusciamo solo a balbettare. Mauro Falciani, il libraio fiorentino orgogliosamente pulp che l’aveva invitato solo pochi giorni fa, ha reagito nel modo che forse gli avrebbe fatto piú piacere: “Non credevo neanche che potesse morire. Ci voleva almeno un’arma di grosso calibro”. Il suo Sniper Kane avrebbe annuito. E, piangendo di rabbia e dolore, lo facciamo anche noi. Che fitta alla viscere è adesso alzare la testa dal pc, in biblioteca, e vedere lo scaffale dove sfilano tanti suoi titoli. Possiamo solo continuare a combattere e cantare, come eretici, mercenari e pirati, scaldandoci al gran fuoco della voce che riecheggia ancora in quelli scaffali, in attesa di ritrovarci insieme con lui, e balzare fuori delle porte di Odino per farsi fare a pezzi dai lupi e dalle fiamme, ridendo e scambiandoci battute feroci, al Ragnarok.