Il gay Pride della Silicon Valley
Cronache di una manifestazione che doveva essere di protesta, ma che si riscopre, piuttosto, Pride corporate, dove a farla da padrona sono i carri "aziendali"
Doveva essere il pride del malcontento, quello politico. Il nostro primo, sanfranciscano, l'ennesimo qui, quarantasettesimo per l'esattezza. Il pride antitrumpista, e quello dell’epoca terroristica e dei lupi solitari. Dunque controlli di sicurezza per entrare nelle vie presidiate come salendo su un volo El-Al: metal detector, telefoni ed eventuali computer tirati fuori, su un fugace banchetto, liquidi (!) via, il nostro bibitone di caffè americano ce lo fanno svuotare per terra, con una misura forse isterica poiché poi le miriadi di bar, ristoranti, caffetterie nella zona rossa non saranno poi certo tutte controllate (e intanto, vietato il caffè ma canne ciclopiche e alcolici eccezionalmente ammessi alla deambulazione).
Settorializzato, questo pride, targettizzato. Venerdì la marcia transgender, sabato lesbico, domenica gran finale gay a reti unificate. Stupisce, per lo spettatore europeo entusiasta, il senso di comunità, il padrone di casa (etero) ci manda sms ricordando l'affitto in scadenza e chiosando "happy pride!" con emoji di prammatica; giornali locali e tv e tutti pubblicano guide e consigli, è un buon ferragosto globale a San Francisco.
Doveva però essere appunto di protesta, il primo dell'èra Trump, ennesimo segnale della solita California siliconvallizzata che si sente diversa e "altra", ma poi andando sulla Market Street, via nazionale e internazionale di shopping e strusci, e oggi di corteo, capisci di più: è soprattutto un Pride corporate. Passano infatti soprattutto questi carri aziendali, più o meno sontuosi e coreografati e accessoriati a seconda dei fatturati e delle Ipo: c'è United Airlines, aerolinea decotta, sputtanata per maltrattamenti e inefficienze, che ha provveduto a un carro con una specie di 737 a grandezza quasi naturale però gonfiabile, che rimane molliccio, con la punta pendula, su un finto Golden Gate di cartapesta, nell'insieme un'immagine desolante più che promozionale; poi un carro della Gilead, formidabile produttore della pillola del giorno prima Prep, che sta soppiantando l'antico e scomodo condom, e da San Francisco ha lanciato la sfida al costume e alla ricetta globale; poi Disney, con pulmino a due piani, e slogan "same sex offered since 1995", perché ci sono anche le gerarchie di chi ha puntato sulla “diversity” prima di tutti. Apple, con plotoni di impiegati con identica maglietta blu con la mela (saranno tutti spontanei? Si pensa a tremende chiamate tipo Guidobaldo Maria Riccardelli al cineforum, di domenica, magari dovranno fingersi gay per avere scatti di carriera); il ceo Tim Cook però non c'è; manca anche Mark Zuckerberg di Facebook che però si cura di farsi fotografare, nel suo road show, al gay pride di Omaha, Nebraska; poi il carro dei non vedenti, poi quello del coro gay, quello del canile municipale, quelli di vari senatori e candidati di tutti i distretti, Scott Weiner, democratico e ambientalista, il sindaco Ed Lee su una Lincoln d'epoca, i vigili del Fuoco, la polizia, la banda della città che suona con nastrini arcobaleno nelle trombe un po' il riff di San Francisco 1936 e un po' “Thriller” di Michael Jackson. L’azienda dei trasporti locale, il procuratore su una vecchia Buick anni cinquanta con le pinne, che saluta come Evita Peron, sotto i grandi marchi locali dei negozi tipo Gap con fuori le bandierone arcobaleno. Netflix. Carri e figuranti di orgoglio leather, in ginocchio, con jockstrap, chiappe e code e finimenti che schioccano frustate, al grido di "kinkster antifascisti". Il vicegovernatore Gavin Newsom, l’unico a buttarla in politica: “Nonostante quello che succede a Washington sui diritti, qui andiamo avanti", proferisce da una Bmw serie 4 cabrio offerta dal locale concessionario.
Mentre nei giorni scorsi una nuova influente associazione, Out in Tech, per giovani geek LGBTQ, si è riunita con grande evento nella sede colossale di Airbnb alla presenza di diversa aristocrazia di Silicon Valley, tra cui Jeff Henry, boss della comunicazione dell’affittacamere globale (ed ex comunicatore della first lady Michelle Obama). "Visto che le tematiche gay sono uscite dall'agenda di governo, è tempo di investire in strutture non governative, è ora che le grandi aziende si diano da fare". Cyan Banister, finanziera del colossale fondo di venture capital Founders Fund, ha puntato per prima su Uber e su SpaceX, il ramo spaziale dell’imaginifico Elon Musk. Non avrà votato per caso Trump? "No, assolutamente, ho scelto Gary Johnson", il candidato libertario. "C'è molto da fare per i diritti gay nella comunità del venture capital" dice al Foglio. "Quando ho fatto coming out l'anno scorso in molti mi hanno scritto. Però sessismo da noi no, per niente, non abbiamo tempo per queste cose. Peter Thiel? Un genio" (Thiel, anima nera di Silicon Valley, fondatore di Paypal, e consigliere del presidente Trump, è un altro socio del Founders Fund).
Però, tornando al corteo, la solita impressione su Market Street di vedere tutte le app che ci cambiano la vita coi loro uffici in fila, Uber, Linkedin, Twitter, sulla stessa strada, e lì sotto passano poi i carri delle stesse aziende: Uber con lo slogan "ride with pride", che tenta di rifarsi una verginità sul fondamentale tema della "diversity" dopo la cacciata recente del suo fondatore macho-man, e nel pieno marasma aziendale, dipinge in questi giorni anche le rotte delle macchinine, sul telefono, colore arcobaleno. Google ha la sua self driving car Waymo che trotterella, ma guidata da un umano; ci sono Intel, Cisco, Oracle, tutti. Nel cielo, pattugliatissimo da elicotteri, droni precisissimi disegnano grandi cuori (le scie chimiche disegnate da droni sono l'ultimo product placement di Silicon Valley. Già Nike nei giorni scorsi disegnava il suo swoosh nei cieli della Baia). Qualcuno alza il sopracciglio per tutto questo product placement nel Pride 2017, sostenendo con aria esperta che a Los Angeles sì, che invece è stata una marcia di protesta.