Scrivere come il ragioniere Ugo, altro che Strega
Tragico come ogni rispettabile comico, gli anni 70 li ha raccontati lui
Due storiche scene raccontano la difficoltà dello scrivere (al netto di chi crede che la capricciosa musa dell’ispirazione c’entri più del dieci per cento). Una è in “Oblomov” del russo Ivan Gončarov. Il protagonista titolare, pigro oltre ogni dire – 150 pagine del romanzo trascorrono prima che si alzi dal letto; secondo Vladimir Nabokov era il contrario di Marcel Proust, che ne impiegava 150 prima di addormentarsi – mette mano a una lettera. Butta giù qualche riga, cancella e rifà, finché i “che” cominciano a bisticciare con “i quale”, e il foglio finisce appallottolato nel cestino.
La seconda è in una raccolta di racconti intitolata “Fantozzi”, anno 1971 (il film diretto da Luciano Salce, primo della saga che ne conta nove, esce nel 1975). La prefazione, un po’ ancora Paolo Villaggio e un po’ già Fantozzi, racconta un impiegato alle prese con una lettera commerciale. Irta di maiuscole e forme di cortesia, del tipo “In risposta alla Pregiata Vostra…”. Lo scrivente combatte con tempi e modi verbali, finché gli esce nero su bianco “e nonostante che noi fottimo già da molto tempo dell’avviso…”.
Rilegge, straccia il foglio e piange in silenzio. Come farà molte altre volte il rag. Fantozzi Ugo nel segreto della sua cameretta, con l’avvertenza “forse è solo un pettegolezzo di bassa portineria”. Per esempio, quando scappa nudo e affamato dalla colonia della salute di Uscio, mai nominata ma riconoscibile, sulle colline liguri. Di posti così ora ne esistono tanti, si paga caro per stare a stecchetto e bere la pozione. Una cinquantina di anni fa – tanti quasi ne sono trascorsi – era pura avanguardia.
L’Italia degli anni 60 la raccontano “Il sorpasso” e “I mostri” di Dino Risi. L’Italia degli anni 70 la raccontano i libri e il film di Fantozzi. Sullo schermo, oltre alla faccia e al fisico, Paolo Villaggio aggiunge la voce e la cadenza. Entrambi offrono squarci sul carattere nazionale italico che ai saggisti e agli storici e ai sociologi perlopiù sfuggono (e da quel dì non sono cambiati come vorrebbe la retorica del precariato: posto fisso aveva Ugo Fantozzi alla MegaDitta, posto fisso ha Checco Zalone in “Quo vado?”). Entrambi vantano una cattiveria – ai limiti del sadismo nel caso del ragioniere, sottoposto a vessazioni e umiliazioni confinanti con la tortura, si accaniscono su di lui i superiori e anche l’irraggiungibile signorina Silvani – che il cinema italiano ha dimenticato.
Fantozzi era tragico, come ogni rispettabile personaggio comico (discendono dall’uomo che scivola sulla buccia di banana e noi ridiamo, mica controlliamo se si è fatto male). Paolo Villaggio lo sapeva benissimo, anche se la scarsa considerazione che l’Italia da sempre mostra verso la comicità lo ha spinto verso il più pregiato cinema di Federico Fellini: “La voce della luna” non spicca nella cinematografia né dell’uno né dell’altro. (Neanche Totò diede il meglio nel pasoliniano “Uccellacci e uccellini”).
Fantozzi a parte, ci sarebbero nella sua lunga carriera abbastanza successi da riempire una ricca biografia. Passano per forza in secondo piano, rispetto a un personaggio che non esisteva e adesso c’è (capita a pochissimi, un Premio Strega alla carriera dovrebbero darlo a Paolo Villaggio, Curzio Malaparte può attendere). Ha cambiato il linguaggio – dalla “nuvola dell’impiegato” alla “Corazzata Potemkin” sbeffeggiata assieme ai discorsi da cineclub. Nulla è invecchiato, tranne “vadi”, “venghi” e le battute sull’ormai scarsamente praticato congiuntivo.