gli scrittori del sole
Scrivo per raccontare mio padre e il suo dolore nel mio
Mio padre ci diceva: la famiglia per me è un peso e mi impedisce di fare il mio lavoro di pittore al meglio. Era una cosa terribile, ma era la verità. Intervista a Domenico Starnone
Per la serie “Gli scrittori del sole” sono uscite finora sul Foglio le interviste a:
Edoardo Albinati, il 24 giugno;
Valeria Parrella, il 1° luglio;
Sandro Veronesi, l’8 luglio.
“Il successo è un disastro”, ride Domenico Starnone con il disfattismo allegro che travolge ogni sua risposta e anche ogni mia domanda, “il successo cancella i freni inibitori. Arrivò del tutto inatteso nel 1985 e spazzò via un vecchio argine, mi fece sentire uno scrittore che poteva tentare di andare oltre le storie scolastiche che gli avevano dato un pubblico. Ma come andare oltre? Mi diedi la missione di sganciarmi proprio da ciò che mi aveva dato successo”.
Domenico Starnone, che ha vinto il Premio Strega con Via Gemito nel 2001, e che molti anni prima aveva esordito con Ex cattedra e altre storie di scuola, diventato poi il film “La Scuola (Dvd)”, racconta adesso il suo ingresso nel mondo degli scrittori, e la fuga ostinata dal pubblico che lo aveva accolto con entusiasmo per le sue storie comiche di ambiente scolastico: “Da ragazzo, fra i sedici e i ventidue anni, volevo scrivere, ma lasciai perdere, non mi sentivo bravo. Ero sposato, avevo un figlio, cominciai a insegnare: la scrittura se ne andò dall’orizzonte. Poi risbucò attraverso il giornalismo, ma un giornalismo militante, al manifesto. Scrivere per il giornale e soprattutto insegnare erano cose che mi facevano sentire realizzato. La ricomparsa della vocazione letteraria è tarda ed è soprattutto occasionale. Capitò che avrei dovuto cominciare sul manifesto una rubrica politico-sindacale che aveva per tema la scuola, era l’autunno del 1985. Ero stanco e mi sembrò più facile, più veloce, fare un pezzo di tipo narrativo, che sul giornale in quegli anni era un’anomalia. Ne venne fuori un finto diario scolastico, scrivevo ogni settimana con un piacevole abbandono e la rubrica – poi diventata libro – ebbe subito successo, cosa che in un paio d’anni mi assegnò l’immagine di scrittore divertente e insieme impegnato”.
Uno scrittore di successo, a cui venivano chieste altre storie di scuola, e teatro e film. “Così a quarantacinque anni riemersero senza controllo le ambizioni letterarie della prima giovinezza e cominciai quasi subito a provare a liberarmi di Ex cattedra, che mi aveva dato tanti lettori entusiasti, soprattutto insegnanti, un pubblico cospicuo. Non che non amassi quel libro, tutto ciò che ho scritto sulla scuola mi piace ancora oggi. Ma il successo come dicevo è un disastro: libera energie prima sotto controllo. Azzardai subito un libro più complesso, che ancora parlava di scuola ma che sicuramente deluse i lettori di Ex cattedra: Il salto con le aste. Lì gli insegnanti si precisavano, diventavano altro. Provai a raccontarli come ‘intellettuali incompiuti’, carichi di energie creative che non riescono a darsi sufficiente sbocco, persone ingorgate in ogni loro manifestazione, anche sentimentale, un ceto medio colto uscito dal grande processo di modernizzazione del mondo che si compie negli anni Sessanta e Settanta con le ossa rotte, dolente, amareggiati, in cerca di nuove definizioni di sé. Una mia ossessione, volevo scavarci dentro. Ma ecco il ritrarsi del pubblico: il mio libro era complicato e soprattutto non faceva ridere. Pazienza. A quel punto non c’era più niente da fare, scrivere mi piaceva, era tornato centrale. E volevo continuare a scavare in quel ceto che conoscevo bene, nelle sue piccole vicende, non volevo più fare il narratore scolastico”.
L’ossessione di Starnone per questo ceto medio colto a cui sente di appartenere è legata stretta all’idea di fallimento – a cui io mi oppongo subito, parlandone con lui, ma senza mai riuscire a scalfirla. Gli interessa il movimento di questo ceto verso l’alto, verso un mestiere creativo, verso sogni ambiziosi, e il fallimento implicito del salto: “Grandi ambizioni e mediocri risultati”, mi dice con un sorriso su questa faccia bellissima, impassibile ma improvvisamente divertita: “Tieni conto che ero partito come scrittore comico ma nel giro di pochissimo tempo di comico non c’era più niente”.
I tuoi personaggi quindi appartengono tutti a questo ceto medio destinato all’infelicità? “Non so, credo di sì. Il bibliotecario di Segni d'oro certamente. E il dattilografo di Eccesso di zelo che batte a macchina testi raffinati senza capirli. Lentamente, negli anni, questi personaggi diventeranno sceneggiatori, scrittori, faranno gli artisti, come in Via Gemito, come in Scherzetto, saliranno un po’ di tono, ma sempre portandosi dietro un’impressione di mediocrità, che gli deriva dall’origine sociale bassa, ma anche dal modificarsi delle gerarchie di valore, dal franare dei profili lavorativi e, negli anni Novanta e fino a oggi, del mondo come l’hanno vissuto e anche sognato da giovani. Intorno a loro, tutto si sgretola, niente è più stabile, appena si accendono per qualcosa ecco che pagano il prezzo della sofferenza causata dal desiderio. È gente insomma che non trova mai ciò che si era immaginata di trovare e si ferma disorientata a un livello intermedio, incapace di fare un passo indietro ma anche di farne uno avanti. La mediocrità è la modalità di queste esistenze, ed essa si affaccia anche nell’idea di sesso, di coppia, di famiglia”.
Il padre di Via Gemito, Federì, racconta Starnone, “è ai miei occhi un po’ il precursore dell’odierna ressa di vocazioni creative che non riescono ad avere la realizzazione a cui aspirano. Si sente dentro una quantità spropositata di energie artistiche, è un pittore tormentato dal suo cattivo carattere e dalla sofferenza, che riversa sulla famiglia. E’ ‘un’ombra scontenta che siede a capotavola’”, e di lui parleremo ancora in questa intervista, perché Federì è anche il nome del padre di Starnone, che a Napoli faceva il ferroviere per mantenere la famiglia, ma era soprattutto un pittore di talento.
Domenico Starnone mi racconta adesso un lungo pezzo dello scrittore Marco Missiroli uscito sulla Lettura del Corriere della Sera, un articolo interessante sulla difficoltà di vivere soltanto di scrittura. Lo fa per spiegare la vita difficile di chi sceglie oggi un mestiere creativo, un numero ormai veramente alto di giovani, una sorta di dilagante – ironizza con un ossimoro – “eccezionalità di massa”. Starnone è molto interessato alla condizione giovanile, agli effetti del lavoro che non c’è, ma io adesso sono interessata di più a lui, vorrei sempre tornare a lui, al suo salto da un mondo all’altro, e allora provo a dire che la differenza la fanno sempre il talento e la determinazione nel realizzarlo.
Starnone mi guarda con una serietà meno allegra: “Io ho raccontato persone di talento che non si realizzano o meglio che si realizzano poco, si fermano a mezza strada. Non ho mai raccontato persone senza talento, ma persone di talento che sono costrette a prendere atto, nel mondo com’è oggi, della loro medietà. Ho fatto l’insegnante per tanto tempo e so che il ragazzo che sembra meno capace, se riceve sufficiente attenzione tira fuori capacità inaspettate. Il fallimento scolastico, per esempio, è in linea di massima il risultato di un’istituzione che non sa e probabilmente non vuole prendere l’istruzione di tutti per il verso giusto. Nella mia ottica quello che è decisivo non è il talento, ma l’insieme di circostanze dentro cui il talento è destinato a manifestarsi, un ambiente che non ti capisce, un mondo che non sa che farsene del tuo estro, o anche un pessimo carattere”.
Starnone parla dei rissosi, come Federì diVia Gemito: Federì è sempre nei suoi pensieri, Federì è un prolungamento romanzesco di suo padre, torna sempre, tornerà ancora. “Ai miei occhi è fondamentale l’occhio distaccato con cui guardiamo ai nostri risultati. Federì non vuole vedersi, vedersi lo fa soffrire. Ma a me piace chi sa vedersi e caso mai concludere: i risultati? sono poco significativi. I miei personaggi presto o tardi lo fanno e questo forse rende malinconici i miei libri”. E i tuoi risultati? “I miei risultati sono poco significativi”, sorride Starnone. Cerco di contraddirlo, mi agito sulla sedia dentro questa stanza ancora spoglia, per terra c’è un quadro da appendere, e in un particolare di questo quadro non riconosco subito la copertina di Scherzetto, il suo ultimo libro, ma è un quadro molto bello, di Dario Maglionico, e spesso, mentre parliamo, osservo il comò nel quadro che sembra il mio comò, la lampada nel quadro che sembra la mia lampada, sopra un pavimento uguale al mio pavimento, ed ecco sono caduta nella trappola: sono un personaggio dell’eccezionalità di massa, ha ragione Starnone, lo siamo tutti. Mi ribello. I tuoi risultati sono importanti, guardi sempre verso l’alto, ogni volta cerchi qualcosa di nuovo, dico.
Mi risponde citando Edoardo Albinati, che ha parlato in queste pagine del dovere di uno scrittore di confrontarsi con i più grandi. “Albinati dice una cosa molto seria. Chi scrive deve avere ambizioni alte, e quindi modelli alti, e quindi deve saper rischiare, deve saper dire a se stesso: questo sì, questo assolutamente no. Quando il personaggio di Federì vede Mirò, dice: ecco chillu strunz ’e Mirò, quello stronzo di Mirò che faceva i pupazzetti da bambino. Da un lato c’è della spocchia, sicuramente, dall’altro c’è il bisogno di un confronto altissimo. Federì voleva essere Rembrandt, non Mirò ma Rembrandt. Qui però devo dire che a me interessa la tragedia del confronto, il momento in cui scopri che insegui modelli che non saprai mai, mai, mai raggiungere e mettere a frutto. Pensa a Dante, che scrive: ‘Ed io fui sesto tra cotanto senno’, e i cinque prima di lui sono Virgilio, Orazio, Omero, Ovidio, Lucano. Ecco una geniale sfrontatezza. Dante si sta confrontando con il massimo della sua tradizione letteraria, e l’ambizione estrema è sempre un segno di qualità, perché significa che ti stai impegnando in uno sforzo enorme. Bene. Del piccolo mondo che ho raccontato a me interessa il momento in cui si punta al massimo e il momento in cui si prende atto che lo sforzo è quasi sempre fallimentare, che tra cotanto senno non ci finiremo, che resteremo intelligenze incompiute e che però, meno male, la sorte di ha riservato la possibilità di metterci alla prova”.
Starnone adesso ride: “Non ti conveniva intervistarmi, passerò per il più cupo in circolazione”. Allora, cerchiamo di fare una classifica di tragedie per uno scrittore, oltre a quella del fallimento: “La tragedia vera è quella del tipo Verga: non scrivere più granché e tuttavia restare vivi. Morire sarebbe meglio: è brutto non avere pubblico, è brutto perderlo progressivamente, i libri sono senza vita se nessuno li legge; ma è molto peggio non scrivere più, scoprire che da te non esce più niente, che sei arrivato al tuo fondo. In questo senso sono tutto dalla parte di Federì, che alla fine del romanzo dice dei suoi innumerevoli nemici veri e immaginari: ‘Li ho fottuti tutti, perché ho pittato sempre, fino alla fine’. La grande scommessa è arrivare fino in fondo facendo il lavoro che ti sei assegnato”.
Un’altra tragedia, ma diciamo tragedia con un certo grado di comicità, è il tempo che passa. “È stato sempre una mia ansia, il tempo – dice Starnone – Il tempo passa, si invecchia, invecchiano le cose che abbiamo scritto. Il tempo stringe e non si riesce mai a imparare abbastanza, a progredire a sufficienza. Il tempo scarseggia e quando fai una cosa e quella cosa ti sembra ben fatta, non devi ripeterla, devi trovare la porta d’ingresso per qualcos’altro, anche con strumenti che fino a quel momento non hai maneggiato. Hai un tuo mondo e ci scavi, e ti sposti. Tutti abbiamo un’unica sofferenza da raccontare, un’unica gioia, una sofferenza-madre, una gioia-madre, e ci giriamo intorno ma con storie diverse, invenzioni e sfide tecniche sempre nuove. Scrivere è interessante se tendi a darti un limite – il limite della cosa che finalmente pare riuscita – e poi a forzarlo, se sposti continuamente i confini della tua esperienza di scrittore. Se invece la congeli, perché hai trovato un tono – come è successo a me con la scuola – puoi andare avanti per decenni, anche incoraggiato dal pubblico, che a volte fa come i bambini che vogliono sempre la stessa favola. Ma il pubblico va forzato. Il rischio è grande ma necessario. Senza pubblico non esisti, così come in generale non esisti senza gli altri. Senza un legame forte con gli altri, senza la loro pressione, la pagina nasce morta. Col pubblico è lo stesso. Piccolo o grande che sia è lì, fa pressione, chi scrive ha necessità di quella pressione. Ma la dinamica è questa: caro pubblico, tu mi dici che questo libro va bene e io sono contento, ma ho in mente un’altra cosa e te la voglio proporre, a mio rischio e pericolo, e se non ti piace ci soffro, ma pazienza, ci proverò ancora e ancora. Limitarsi a ripetere per tutta la vita il piccolo giochino di successo che abbiamo inventato è umiliante”.
Fra disastri e umiliazioni autoironiche siamo sempre più vicini al cuore di Starnone, che ha paura del tempo che passa, soprattutto paura di non fare in tempo a mettere in pratica quello che ha imparato. “Kafka diceva: ho un mare di energie dentro, però il lavoro mi toglie tempo e, cosa ancora più grave, so che non arriverò a quarant’anni. Ci sono brani dei suoi diari che sono strazianti, da questo punto di vista, perché tu sai che sta dicendo sul serio, sa che non riuscirà a compiersi. Ecco un’altra cosa che mi interessa: i libri che non si compiono. Mi piace raccontare vite incompiute, mi piace orchestrare libri che non giungono a compimento. Non esistono le opere compiute, esistono le opere e basta: il romanzo ha una sua finzione di compiutezza, una volta perfezionata dalla parola Fine. Ma i romanzi non terminano davvero, in ogni libro si apre una nuova porta verso un altro libro”. Ogni porta apre su qualcosa di nuovo, di mai sfiorato prima? “Non parlo di cambiare continuamente temi, la ricerca non è questo, non è applicare un’abilità acquisita a temi diversi: la ricerca è dentro i limiti del proprio mondo, perché se non esiste un mondo a cui si vuole dare forma non c’è neanche la possibilità di aprire sempre nuove porte”.
Ma adesso Starnone si ferma, esce dal ragionamento, ora sta parlando soltanto di sé: “Lo so che alla fine l’unica vera cosa che mi interessa è la figura che ho avuto davanti agli occhi come una croce e insieme una delizia fin da quando ero piccolo: la figura di mio padre, la figura di un artista di genio che però per origini, per carattere, per una serie di ostacoli ambientali, per il lavoro ufficiale che faceva a pugni con le sue aspirazioni, non è riuscito a realizzarsi: ferroviere ma pittore, stanco morto specialmente dopo i turni di notte e che però, anche se stanco, non resiste e passa ogni ritaglio di tempo libero davanti al cavalletto. Lo so che quella figura – per il valore simbolico che le attribuisco e che ho esteso a molti altri momenti importanti della mia esperienza – è l’unica cosa che mi interessa davvero raccontare. Ho scritto e scrivo di questo e di quello sui giornali, ma non è questo scrivere che mi interessa: scrivere per me è occuparmi di quella sua sofferta incompiutezza, dell’effetto che essa ha avuto sui figli, su chi lo ha amato, di come quella incompiutezza infelice ha condizionato la mia vita, la mia sensibilità, i miei errori, ed è diventata una sorta di lente sul mondo ”. Mi sembra a questo punto che lui abbia aperto la porta sulla sua vita, io ho paura di dire sciocchezze, quindi probabilmente ne dico, e mi dispiace.
Tu hai fatto gli stessi errori di tuo padre? “Penso che il ricordarmi di me come figlio, e quindi del male che io ho creduto che mi venisse fatto come figlio, mi abbia per molto tempo spinto ad abbracciare un modello antitetico a quello di mio padre, salvo poi scoprire che mio padre non era un cattivo padre, era un uomo sofferente dentro una situazione che, oltre a felicità improvvise, non poteva che creare sofferenza. Se uno dice: la famiglia per me è un peso e mi impedisce di fare il mio lavoro di pittore al meglio, e lo dice a sua moglie e ai suoi figli, come faceva mio padre, sta dicendo una cosa terribile e tuttavia è la verità, è proprio così. Quell’uomo soffre perché sente la responsabilità dei figli e della famiglia e pensa che senza di loro potrebbe fare chissà quali cose. E l’egocentrismo di tutte le attività creative e fa male. Non sappiamo come tenere insieme affetti, pulsioni, desideri, spinte personali, obblighi verso noi stessi e verso gli altri, falsità necessarie, e lo spazio sempre precario tra sé e sé da cui proviamo a cavar fuori le opere o, più in generale, ciò che siamo davvero ”.
Insomma, non c’è possibilità di sottrarsi alla sofferenza e alla catena degli errori. “Non so per le donne. Per gli uomini le cose non vanno bene, invecchiano e restano sempre bambini che rubacchiano caramelle: l’unico modo che abbiamo davvero per crescere è forse la morte dei nostri genitori, scoprire che nemmeno volendo possiamo ancora essere figli. Ma l’odierna linea di tendenza è che i genitori non muoiono più, si invecchia da figli. Conosco figli che vivono e si comportano da figli e tuttavia stanno tra i settanta e gli ottant’anni. La condizione di figlio si è andata dilatando, tu hai l’impressione che il tempo sia fermo, continui ad avere davanti questi idoli eterni, lucidi e imperativi, pronti a punirti. E forse non è sufficiente nemmeno la morte del padre. Si diventa veramente adulti quando muore la madre, il corpo vivissimo da cui siamo usciti: solo allora scopriamo che viviamo dentro un incubo – ride Domenico Starnone – che siamo organismi a tempo determinato”. Gli ricordo che questa serie di interviste si chiama: gli scrittori del sole, una cosa luminosa e piena di speranza.
Starnone dice: forse allora non dovevi intervistare me. Ma poi dice che gli piace coltivare e sostenere le speranze degli altri. Legge molto, anche per la continua preoccupazione di non accorgersi del talento altrui. “Lo faccio perché ho la sindrome dell’insegnante, avevo paura di non accorgermi di avere uno Stendhal in classe. Ma lo faccio soprattutto per la memoria di mio padre e del suo talento che meritava assai più di quanto ha avuto, Ho paura di non accorgermi di una buona opera ma anche di negare il talento altrui. Negare le qualità degli altri, lavorare a impedire che emergano, tutto questo non mi piace. Se trovo qualcosa che mi entusiasma, cerco il numero di telefono, chiamo l’autore, glielo dico, oppure alla prima occasione lo dichiaro pubblicamente. Con la folla di libri che escono oggi è sempre più difficile attuare questa linea di condotta, forse devo rassegnarmi all’idea che anche se viene fuori una cosa meravigliosa non me ne accorgerò. Ma accorgersi di un buon lavoro, specialmente del buon lavoro di un giovane, è un piacere reale, e non è questione di generosità. Innanzitutto constati che con lo scrivere si possono fare ancora cose belle, e quindi non hai sbagliato a dare tanto peso alla scrittura; e poi, se te ne sei accorto, bè, vuol dire che se pure come scrittore non hai fatto quello che ti immaginavi, come lettore sei bravo, e puoi essere contento. Comunque, meglio non entusiasmarsi per tutto quello che ci assomiglia, non porta molto lontano da noi stessi. Meglio ciò che pare in principio come noi e poi ti mostra che si può andare altrove. Quando cominciai a leggere Francesco Piccolo, mi sembrò che facesse esplodere cose che a me erano precluse . Lo stesso mi è successo con quel talento straordinario che è Antonella Lattanzi, è una scrittrice con un talento mimetico che non ha niente di equivalente in Italia. O con uno scrittore che amo da decenni, Paolo Teobaldi, ha scritto libri molto belli. Sono davvero stimolanti gli scrittori che ci allontanano da noi, dalle nostre piccole abilità. Uno di questi per me è Michele Mari, da anni. Fa cose che bisogna saper leggere e saper apprezzare, è una sfida molto interessante, piena di coltissimi doppi fondi. Ecco, come lettore io so entusiasmarmi, ci credo”. Non solo come lettore, anche come scrittore. “Faccio del mio meglio. O almeno cerco ogni volta di far meglio della volta precedente. Perciò a ogni racconto finito mi auguro che ci sarà una prossima volta”.